25-aprile-firenze

Di Fabian

Quando la borghesia accusa il 25 Aprile di essere una giornata divisiva, confessa a dire il vero una realtà di fatto difficilmente contestabile. E non si tratta di una divisione limitata al binomio fascismo-antifascismo, ma che sfocia e si radicalizza nello stesso fronte antifascista.
Solo i più irriducibili utopisti possono credere che, dietro l’unità del movimento partigiano, non si nascondessero in nuce i presupposti della Guerra Fredda.

Quella condotta dagli Stati Uniti nella Seconda Guerra Mondiale fu una guerra su due fronti fondamentali: già a partire dagli anni ’30 il Council on Foreign Relations aveva iniziato ad individuare nella Germania un pericoloso avversario geopolitico, ma al contempo non ci si poteva permettere di liberare l’Europa per consegnarla nelle mani del nemico sovietico.
In tal senso l’egemonia comunista nei movimenti di liberazione nazionale, e in particolar modo in quello Italiano, erano un ostacolo estremamente pericoloso sulla via di una definizione stabile di aree di influenza e della creazione di un’Europa atlantista e virulentemente antisovietica.
Se dunque da una parte gli Stati Uniti e l’Inghilterra si preoccupavano di stabilizzare il proprio dominio sulle penisola (e, come ebbe a dire Hoxha, “se il capitale americano ha messo un piede in diversi paesi d’Europa, in Italia ve li ha messi tutti e due”) attraverso la prodiga concessione di posti chiave di potere ad una Santa Alleanza composta da democristiani, mafiosi e fascisti riciclati, d’altra parte era necessario porsi nei confronti del movimento partigiano del Nord in maniera ambigua: unificare il movimento e infiltrarlo, rifornirlo del necessario affinché potesse continuare la lotta, ma contemporaneamente lavorare affinché la sua azione potesse essere limitata al sabotaggio, impedire che il movimento partigiano si trasformasse in un esercito clandestino sul modello greco.

Scrive Elena Agarossi, in un intervento per l’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione: «la resistenza venne utilizzata dagli alleati, ma questi non ne riconobbero mai l’autonomia, come venne negata ogni autonomia al governo italiano. A questo ad esempio vennero proibiti qualsiasi rapporti diretti col movimento partigiano: ogni collegamento doveva passare attraverso le autorità alleate. […] Quando la resistenza si sviluppò come un movimento a prevalente direzione comunista il pericolo di un collegamento tra forze partigiane e URSS assunse una forma concreta: la possibilità cioè che il movimento partigiano potesse sfuggire al controllo delle autorità alleate e del governo di Roma e cercasse d’instaurare un governo rivoluzionario.», ma soprattutto: «la politica alleata continuò in ogni caso ad essere sempre quella di «collaborare con i partigiani finché un’area era liberata, poi di disarmarli e sciogliere le loro unità» (!!!).

A titolo d’esempio, possiamo leggere in un documento angloamericano titolato Direttiva sulla politica da seguire nell’aiuto da dare ai partigiani italiani: «Una linea di condotta alternativa potrebbe essere quella di non fornire alcun aiuto alle formazioni partigiani di ispirazione comunista, incrementando allo stesso tempo i rifornimenti a quelle formazioni le cui intenzioni sono chiaramente più consone agli interessi Alleati».
Nonostante simile direttiva non ebbe effettiva applicazione, resta interessante notare l’ambiguità del sostegno Alleato, decisamente poco propenso ad impegnarsi realmente in una collaborazione proficua con i Sovietici che non fosse puramente un’alleanza limitata e di contingenza.
Se la Germania era all’epoca il nemico “in atto”, l’Unione Sovietica era il nemico “in potenza”, l’imperialismo stava affilando le armi per pugnalare alle spalle l’URSS, e i sovietici si fidarono fin troppo del nemico di classe.

E in tale situazione, il fronte più pericoloso era per gli angloamericani era proprio il nord-Est italiano, dove i contatti tra il movimento di liberazione Italiano e quello jugoslavo a guida comunista erano più frequenti, e dove dunque il pericolo di un’egemonia comunista nella Resistenza era ben più reale.
Come affermato all’epoca da Stalin: «Questa guerra è diversa da tutte quelle del passato; chiunque occupa un territorio gli impone anche il suo sistema sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale, fin dove riesce ad arrivare il suo esercito; non potrebbe essere diversamente».
Ed è in questo contesto che s’inserisce la contestuale ambiguità partigiana, perfettamente espressa
dalla linea dell’Unione Operaia Giuliana, la quale affermava: «esprimiamo l’augurio che le gloriose Armate Sovietiche, nelle quali è entrata a far parte l’Armata del Maresciallo Tito, raggiungano presto la nostra regione, la quale possa domani costituire la Repubblica Sovietica Giuliana, ed entrare così nella Federazione dei Popoli Liberali». In sostanza, per un certo settore partigiano dell’estremo nord-est l’annessione Jugoslava veniva vista come una sorta di ultimo argine contro l’avanzata della reazione portata dagli angloamericani (specifichiamo che all’epoca Tito non aveva ancora gettato la sua maschera da leninista per mostrarsi nelle sue vesti di nemico di classe e traditore della classe operaia).

Nel movimento partigiano del restante Nord Italia una simile prospettiva non era completamente rigettata, tanto che, nel complesso di un pieno sostegno alla linea sovietica del fronte antifascista, vi
furono dei cedimenti anche da parte della direzione del PCI: «favorire l’occupazione della regione giuliana da parte delle truppe del maresciallo Tito significa che in questa regione non vi sarà né un’occupazione inglese, né una restaurazione dell’amministrazione reazionari italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell’Italia» (Togliatti).

In conclusione, il problema del rapporto fra rivoluzione sociale e nazione è un problema complesso, e l’incapacità della Resistenza (errore tuttavia criticabile seriamente solo a posteriori) di coniugare realmente la questione della rivoluzione socialista alla questione della liberazione nazionale resta
ancora oggi un problema non indifferente.
Se il presupposto della Rivoluzione è il dualismo di potere, potevano i partigiani italiani approfittare
del vuoto di potere dovuto alla ritirata tedesca per instaurare un potere popolare alternativo? E, nel
caso, quali sarebbero state le conseguenze per il movimento antifascista globale nel suo complesso?
La caduta dell’Italia nell’orbita socialista avrebbe forse spinto gli angloamericani ad incontrarsi con
la volontà germanica di capovolgere le alleanze e unirsi in una comune crociata mondiale contro il
comunismo?