Il giorno 7 ottobre, è avvenuto un qualcosa che ha letteralmente stupito il mondo.

Dalla striscia di Gaza, una piccola porzione di terra (leggasi lager a cielo aperto) grande 365 km², dove al suo interno erano rinchiusi ben due milioni di palestinesi, senza regolare accesso ad acqua ed elettricità, è partito un formidabile attacco missilistico a cui è seguito un vero e proprio sfondamento via terra, fino a prendere in ostaggio non solo i civili ma anche militari di alto grado israeliani, e portarli con loro nella gabbia di Gaza, ormai sfondata con i bulldozer.

Insomma, indipendente dai risultati che l’entità sionista ha poi ottenuto con la conseguente operazione “spade d’acciaio”, lo Stato ebraico ne è uscito umiliato, mentre Hamas, il gruppo militare palestinese, che esercita il controllo sulla striscia di Gaza, ha dimostrato una forza militare di tutto rispetto, che nessuno si sarebbe mai neppure immaginato lontanamente che avesse, (ricordiamo che Hamas non è neanche un attore statale, bensì parastatale).

È particolarmente utile analizzare questo evento contestualizzandolo all’interno della società sionista, poiché come abbiamo già avuto modo di vedere con le proteste sorte con la famigerata “riforma della giustizia” di Netanyahu, la società sionista risulta assai spaccata, e chiaramente, queste spaccature si ripercuotono anche sugli apparati statali israeliani, compresi quelli militari e di sicurezza, che prima ci avevano illuso essere quasi infallibili, mentre all’improvviso si rivelano essere praticamente un fiasco, si pensi ad esempio, ai riservisti, che sono una punta di diamante, soprattutto dell’aviazione militare sionista, i quali a seguito della riforma, hanno dichiarato di non partecipare più alle esercitazioni, salvo poi dover essere mobilitati, questo ha evidenziato che Netanyahu deve “pagare il conto” con i militari.

Rimanendo in tema “società sionista”, i problemi per lo Stato sionista si complicano ulteriormente, specialmente se pensiamo che circa il 20% della popolazione israeliana è araba e musulmana, si tratta di una grossa fetta della società che Israele pensava di avere in qualche modo “assimilato” ma in realtà come abbiamo già visto nel 2021, questi si sentono chiaramente più vicini agli altri palestinesi, pur essendo formalmente di cittadinanza israeliana, ciò mostra come all’interno dello stesso stato sionista, l’opinione degli Arabi non si può annichilire o trascurare come lo stesso Netanyahu a volte si illudeva di poter fare.

Ma se si provasse a contestualizzare l’avvenuto su un piano più ampio, cosa se ne deduce?

Senza dubbio, questo è uno di quegli eventi, apparentemente straordinari, che accadono tipicamente quando le potenze egemoniche sono impegnate altrove (come USA e Cina, rispettivamente impegnate intorno a Taiwan, e la Russia con la guerra in Ucraina), come allo stesso modo lo sono le rivoluzioni in Africa che de facto hanno posto fine alla “francafrique”.

Fino ad adesso il grande sconfitto, è l’accordo che Arabia Saudita e Israele erano in procinto di fare, si trattava di un accordo che, a detta sia di Netanyahu che del principe Mohamed Bin Salman, doveva “scrivere la storia di un nuovo Medio Oriente”.

Si tratta di un accordo, sotto l’egida della Casa Bianca, che doveva rappresentare lo stadio finale dei cosiddetti “accordi di Abramo”, cioè degli accordi fortemente voluti da Trump, che segnavano la normalizzazione dei rapporti tra i paesi arabi del Golfo Persico ed Israele, e che prevedevano anche l’annessione di almeno il 30% dei territori palestinesi.

Un mese fa durante la settantottesima riunione dell’Assemblea Generale dell’ONU, Netanyahu si era presentato con grandissimo entusiasmo, annunciando l’ultimazione di questi accordi, il capo dei sionisti, con fare molto plateale, ha mostrato due cartine geografiche, la prima raffigurante l’entità sionista durante il 1948 (dove però apparivano indicati come “Israele” tutti i territori palestinesi), la seconda invece raffigurante l’entità sionista ed alcuni paesi mediorientali, ed altri africani, come Egitto e Sudan.

Si tratterebbe del tentativo di dare una direzione favorevole agli USA dei cambiamenti in corso in Medio Oriente, che prevedeva tantissime sfaccettature, anche economiche, come si poteva già vedere dal cosiddetto progetto della “nuova via delle spezie”, ovvero la risposta americana al progetto della “nuova via della seta” capeggiata da Pechino.

Tuttavia con quanto avvenuto lo scorso 7 ottobre, solo nei prossimi mesi potremmo vedere fino a che punto la resistenza palestinese fiaccherà le ambizioni della Casa Bianca in Medio Oriente, senza alcun dubbio, nell’immediato, la prova di resistenza dei palestinesi mette in serio imbarazzo la casata saudita, paese storicamente baluardo dei paesi islamici in particolar modo l’Arabia Saudita si era fatta paladina, Il cui principe ereditario però ha affermato, qualche settimana fa, in merito agli sviluppi tra le relazioni Israele-Arabia Saudita, “i negoziati fin’ora stanno andando bene”, aggiungendo che “la normalizzazione dei rapporti con Israele è ogni giorno più vicina”.

Un’altra sfaccettatura prevista nel progetto supervisionato dalla Casa Bianca è appunto una forma di “deterrenza nucleare” in Medio Oriente, infatti, dopo l’ultimo accordo sul nucleare tra Stati Uniti ed Iran, il principe saudita ha anche aggiunto che “se l’Iran si dota di armi nucleari ne dovremmo avere anche noi”.

In merito a questi accordi, Netanyahu si era anche pronunciato sui palestinesi, dicendo che questi “non devono avere il veto sulla normalizzazione degli accordi tra Israele e paesi arabi”, (tradotto, decidono i sionisti e nessuno chiede l’opinione dei palestinesi).

Questo scatenò lo sdegno dell’Iran, che già da marzo scorso aveva fatto grandi passi avanti per ottenere una normalizzazione dei rapporti con Riad, sotto la supervisione della Cina, Teheran quindi aveva accusato l’Arabia Saudita di voler “pugnalare alle spalle” i palestinesi.

Alla luce di questi avvenimenti, la grande prova di resistenza che i palestinesi ci hanno dato la mattina del 7 ottobre, riportano il premier Netanyahu ed il principe Bin Salman alla realtà. Il primo deve aver capito che a dispetto delle sue ambizioni, non è possibile prendere importanti decisioni in Israele senza tenere in considerazione l’opinione dei palestinesi, il secondo che prima di pianificare di tradire alle spalle i palestinesi deve prima pensarci almeno due volte.

Soffermandoci ulteriormente sullo stato sionista, dopo i fatti avvenuti il 7 ottobre, le forze d’occupazione sioniste hanno immediatamente risposto con un terribile assedio a Gaza, dove addirittura il premier Netanyahu si vantava sui social della rappresaglia con tanto di video, a questo si aggiunge il fatto che le forze armate sioniste non si sono fatte problemi nell’usare in modo indiscriminato munizioni al fosforo bianco, vietato dalla gran parte delle convenzioni internazionali.

In più, gli Stati Uniti gli sono corsi in aiuto, inviando oltre 3 miliardi di dollari ed altri aiuti militari diretti verso Israele. Uscendo dalla prospettiva militare (ovvero quella che ha tenuto in vita lo stato sionista fino ad ora) e concentrando l’attenzione su quello della gran strategy, l’entità sionista ne risulta sempre più fragile, come già accennato in precedenza, si prospetta uno stato sempre più spaccato, si pensi ad esempio alla composizione demografica di Israele, che oltre ad essere composto dal 20% dai palestinesi, una percentuale altrettanto abbondante è costituita da un gruppo di Ebrei ultraortodossi, gli Haredi, i quali sono contrari al sionismo e che secondo tutte le stime demografiche, entro il 2050 costituiranno più di un terzo della popolazione israeliana.

Insomma, ormai le spaccature all’interno della società israeliana sono sempre più evidenti, e di conseguenza anche auto compromesso all’interno come nazione, mentre la resistenza palestinese, malgrado sia stanca dei propri leader non distoglie mai lo sguardo dal suo sogno di poter finalmente vivere in una Palestiniana finalmente libera, e ciò è particolarmente vero man mano che avanzano le nuove generazioni di palestinesi, nate nell’era “post-Arafat”. Che sia questo l’inizio di un rilancio dei movimenti antisionisti in Medio Oriente e nel Mondo? Se la risposta è sì ci potremmo aspettare un Salah Al-Din per Israele? Lo scopriremo solo in futuro.

«Fino a quando avrò pochi palmi della mia terra!
Fino a quando avrò un ulivo…
un limone…
un pozzo…un alberello di cactus!
Fino a quando avrò un ricordo,
una piccola biblioteca,
la foto di un nonno defunto… un muro!
Fino a quando nel mio paese ci saranno parole arabe…
e canti popolari!
Fino a quando ci saranno un manoscritto di poesie,
racconti di ‘Antara al-’Absi
e di guerre in terra romana e persiana!
Fino a quando avrò i miei occhi,
le mie labbra,
le mie mani!
Fino a quando avrò… la mia anima!
La dichiarerò in faccia ai nemici!
La dichiarerò… una guerra terribile
in nome degli spiriti liberi
operai… studenti… poeti…
la dichiarerò… e che si sazino del pane della vergogna
i vili… e i nemici del sole.
Ho ancora la mia anima…
mi rimarrà… la mia anima!
Rimarranno le mie parole… pane e arma… nelle mani dei ribelli!» [Samih al-Qasim]

Foto di copertina, digitalizzazione di foto e sfondo vignetta di Latuff.

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