Di Fabian

Sconosciuta ai molti, forse a causa del disinteresse scolastico per la storia della povera gente, ma d’importanza non trascurabile, fu la rivolta che agli inizi del 1500 colpì quel cantone d’Italia denominato Friuli: Crudêl Joibe Grasse in lingua friulana, Crudel Zobia Grassa in veneto o Crudele Giovedì Grasso, in italiano: questo è il nome di quella che è stata definita come la maggiore insurrezione contadina dell’Italia rinascimentale, nonché una delle prime e più violente Jacquerie della storia europea.

All’epoca la politica friulana era caratterizzata dallo scontro fra due fazioni aristocratiche: da un lato gli Sturmîrs, filoimperiali; dall’altro i Çambarlans, vicini alla famiglia nobile dei Savorgnan, alleati di Venezia, che nel 1420 aveva messo fine all’esperienza politica del Principato Patriarcale di Aquileia: prima, nonché ultima, espressione statale del popolo friulano. La vecchia nobiltà friulana, dopo l’invasione veneziana, era rimasta sostanzialmente legata all’Impero, per motivi che potremmo definire meramente pragmatici: gli Asburgo avevano sempre concesso alla nobiltà friulana una certa fiducia e un ruolo di spicco negli affari interni; viceversa, Venezia, fu decisamente restia a lasciare ai nobili locali una qualsivoglia forma di concreta autonomia, preferendo abbandonare i ruoli amministrativi a personale veneto. Anche la situazione del popolo friulano, quasi interamente di origine contadina, non era certo delle più rosee. Nel Friuli del cinquecento esisteva, accanto ad un mondo nobiliare ben visibile, un mondo contadino caratterizzato da particolari forme di autogoverno locali legate alla proprietà comune della terra (comugnis o comunâi): in particolare le decisioni più importanti venivano prese dalle assemblee (i viciniis), con l’elezione di rappresentanti locali (deans, meriis, zurâts e ufiziâi o oms di comun). A dispetto di una storiografia che tende a dipingere il popolo contadino come semplice marionetta nelle mani della nobiltà, i friulani dell’epoca erano strettamente legati ai loro usi e privilegi tradizionali.

Un legame che nei fatti si rifletteva in un carattere che i veneziani non tardarono a giudicare “barbaro”, “rozzo” ed estremamente “violento”: ancor prima del Crudele Giovedì Grasso, apice della violenza popolare contro l’oppressione nobiliare, i contadini friulani si erano fatti valere già con l’uccisione di alcuni esponenti della nobiltà. Questo vortice di violenza era tuttavia manovrato dagli stessi Savorgnan, maestri ante litteram dell’arte della propaganda: la nobiltà avversaria fu accusata a più riprese tanto di voler reintrodurre la servitù di masnada, ancora vigente nei territori imperiali, quanto di tramare segretamente per sostenere un’invasione da parte dell’Impero. E fu proprio uno stratagemma architettato da Antonio Savorgnan a scatenare la reazione popolare contro la nobiltà filo-imperiale. Bastò diffondere infatti la notizia che l’Impero stava marciando verso Udine, e che gli strumieri fossero pronti ad aprire le porte della città, per spingere la popolazione ad insorgere contro la nobiltà traditrice. Dal testo “Storia del Friuli” di Walter Tomada leggiamo: «Con la convinzione di essere sotto attacco e in preda al tradimento intestino, le milizie popolari e le cernide scatenarono la loro furia, assaltarono i palazzi dei Torriani e dei loro alleati, uccisero Alvise, Isidoro e Nicolò della Torre e sterminarono i loro seguaci indulgendo anche a pratiche di tipo carnevalesco, dal travestimento alla gozzoviglia, per due giorni. I cadaveri dei nobili vennero spogliati e abbandonati nel fango, in pasto ai cani ed ai topi. Per una settimana arsero i castelli del Friuli da Arcano a Brazzacco, da Caporiacco a Cergneu, da Colloredo a Villalta e a Fagagna.», «la rivolta friulana del 1511, la più vasta dell’Italia rinascimentale, è stata la prima in un secolo laddove i contadini hanno cercato di opporsi ovunque ad una modernizzazione che il potere voleva attuare mediante l’espropriazione dei beni e dei terreni comuni (lis comugnis), dei diritti sulla caccia, sulla pesca e sul legname e di altre prerogative che la gente dei villaggi aveva esercitato nei secoli e non riteneva giusto perdere. Venezia fu la prima a toglierli e i friulani i primi a reagire: senza successo. Ma non senza ragione». Le richieste friulane non restarono però totalmente lettera morta: Venezia non poté restare impassibile dinanzi alle contraddizioni latenti che rischiavano di mettere in pericolo la stessa stabilità del dominio veneziano. Fra le riforme più importanti vi fu infatti l’istituzione della Contadinanza nel 1533, rappresentanza permanente delle comunità rurali friulane: un organo unico nel mondo europeo dell’epoca. La rivolta, anche se sommersa dalle onde della storia, è rimasta a lungo nella mentalità popolare friulana, tanto che fino a poche decine di anni fa erano comuni racconti sulla ribellione dei contadini agli spietati castellani, con l’artificio narrativo della violenza sulle ragazze di paese.

La rivolta friulana, in sostanza, anticipa numerose altre rivolte che nel 500′ incendiarono l’Europa: a titolo d’esempio la rivolta ungherese di György Dózsa, la rivolta austriaca di Michael Gaismair o la famosa ribellione contadina guidata da Thomas Müntzer. È tempo che i friulani, come gli altri popoli d’Italia, si riapproprino dunque della loro plurisecolare storia rivoluzionaria, affinché la memoria delle lotte popolane del passato fungano da faro per guidare il proletariato in quel tortuoso periodo che sarà la rivoluzione socialista.

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