
Di Giampiero Braida e Fabian
Il 24 maggio 1915 l’Italia accettò il peso di una scelta fatale: l’ingresso nella macchina infernale della Grande Guerra Imperialista e la mobilitazione di migliaia di uomini e donne, dalla prima linea delle fabbriche alla trincea carsica, come bastione difensivo della Terra di Dante e Foscolo.
La retorica romantica non può che abbellire la tragicità dell’evento: la maggioranza della popolazione aveva infatti scelto la neutralità e il non intervento, ed è ben noto come l’opzione interventista fosse anche frutto delle macchinazioni imperialiste anglofrancesi. Migliaia di giovani e lavoratori vennero mandati sul fronte a morire sotto il vessillo d’Italia. Parlavano lingue e dialetti diversi, e forse nemmeno sapevano davvero cosa significasse essere italiani: l’Italia insomma era fatta, ma forse mancavano ancora gli italiani, come recita un motto d’azegliana memoria.
L’opinione pubblica era divisa: una minoranza interventista e una maggioranza neutralista. I partiti della destra borghese erano tendenzialmente schierati su posizioni nazionaliste e irredentiste, mentre i socialisti, esempio ad esser sinceri virtuoso nel panorama europeo dell’epoca, si schierarono a favore del nonintervento, coerenti con la propria scelta internazionalista. Tuttavia, è bene ricordarlo, esistevano anche delle sfumature intermedie: vi era infatti un settore liberale della destra di tipo filo-giolittiano e neutralista, composto da un certo numero d’industriali, i quali vedevano favorevolmente la scelta di campo neutrale come un modo per aumentare i loro guadagni nella produzione di armi e altri beni da vendere agli altri Paesi in guerra. E vi erano invece, a sinistra, diversi sostenitori eretici di una posizione interventista democratica o apertamente rivoluzionaria: costoro erano socialisti riformisti, sindacalisti rivoluzionari, repubblicani sociali e anarchici, che vedevano la guerra o come un’occasione per la sconfitta delle potenze reazionarie in vista di un’Europa di nazioni democratiche, o come un trampolino di lancio per una rivoluzione proletaria, e quindi un modo che avevano i lavoratori per realizzare un cambiamento radicale delle società capitalistiche in cui vivevano. Ed è proprio questo interventismo “di sinistra” ad offrire l’humus per lo sviluppo di numerose nuove concezioni sincretiche tra il socialismo e il patriottismo: è il caso dell’Unione Sindacale Italiana di Alceste De Ambris, fautrice del sindacalismo rivoluzionario italiano, così come del “fiumanesimo”della Carta del Carnaro, ma nondimeno del fascismo “diciannovista” di San Sepolcro, ancora vicino a posizioni di classe e (parzialmente) rivoluzionarie.
Cosa resta oggi di quell’esperienza?
Lo scorso 29 Aprile, a Gorizia, il tema è stato trattato nel corso della presentazione del volume “Scritti scelti sul sindacalismo rivoluzionario”. Com’è noto, abbiamo sempre provato una forte simpatia tanto per l’originale sintesi di socialismo marxista e patriottismo italiano di Corridoni e De Ambris, quanto per l’arditismo socialista degli Arditi del Popolo. La demagogia pregiudizialmente anti-nazionale e la mancanza di sensibilità per la questione dei reduci di guerra contribuirono ad allontanare dal vecchio PSI, già allora immobilizzato su posizioni stantie e dogmatiche, tutte le frange di ex combattenti che potevano essere assorbite dal socialismo italiano e mobilitate contro il capitalismo nazionale. Questa incapacità dei socialisti —e successivamente dei comunisti, nonostante le direttive di Lenin e dell’Internazionale—di comprendere il potenziale rivoluzionario dei reduci rappresenterà, in definitiva, l’errore fatale che spingerà definitivamente il proletariato armato nell’abbraccio fatale della reazione fascista.
Il sindacalismo rivoluzionario italiano di Corridoni e De Ambris è profondamente legato al patriottismo, inteso come forza progressista e non banale rivendicazione d’identitarismo etnico: l’idea, cioè la vera forza del discorso corridoniano e deambrisiano, è quella che lo sbocco naturale per la realizzazione delle istanze sindacaliste si possa trovare non in una fuga in avanti cosmopolita, cioè distaccata dalle realtà nazionali e imposta coattivamente secondo uno schema astratto e utopistico, bensì l’idea di un socialismo radicato nelle condizioni nazionali delle comunità oppresse dal capitalismo e dall’imperialismo.
La grande guerra è dunque l’opportunità, tristemente mancata, per smuovere la coscienza del proletariato italiano e favorire gli impulsi guerrieri della classe operaia temprata dalla selvaggia guerra di trincea. Ciò lo si vede nell’arditismo: iniziato nel 1917 come un fenomeno militarista e spiccatamente nazionalista, assume in certi contesti, come quello fiumano, una valenza progressista e risolutamente anticapitalistica, fino addirittura ad assumere posizioni apertamente marxiste e antifasciste come nel caso degli Arditi del Popolo, protagonisti indiscussi dei fatti di Parma del 1922, quando la città divenne teatro di uno scontro decisivo tra gli Arditi del Popolo e le squadre fasciste di Italo Balbo e Roberto Farinacci. In una città che resisteva alle pressioni dello squadrismo, le forze socialiste rivoluzionarie si mobilitarono per difendere il proletariato, dando vita a una battaglia che avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia della lotta antifascista: vi erano infatti, a difesa dei lavoratori parmensi, gli Arditi del Popolo, formazione che coinvolgeva veterani del primo conflitto mondiale di orientamento socialista, anarchico, repubblicano e comunista; l’Alleanza del Lavoro, coalizione sindacale che trovava al suo interno la CGL (sindacato social-comunista), la USI (anarcosindacalisti), la UIL (nazionalsindacalisti) e la FILM (la Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare di Giuseppe Giulietti) e la Legione Proletaria “Filippo Corridoni”, un gruppo di antifascisti guidati da Vittorio Picelli (antifascista della prima ora, poi passato al fascismo “di sinistra”). I fatti parmensi si collocano in un contesto peculiare: conclusasi l’esperienza di Fiume si erano formati comitati di ex arditi e legionari fiumani impegnati a portare avanti il modello fiumano in territorio nazionale. Tra tutti vi era l’Unione Sindacale Dannunziana, la più attiva nel proporre il modello della rivoluzione fiumana in tutto il territorio italiano. I fatti di Parma rappresentarono una vittoria epocale per le forze proletarie, capaci, nonostante l’inferiorità numerica, di mettere in rotta 10.000 squadristi. Scrive a tal proposito Picelli: «I fascisti non più inquadrati e alla rinfusa, si riversarono in tutte le direzioni; coi treni in partenza, con autocarri, biciclette, a piedi, frettolosamente, senza comando. (…) Al di qua e al di là del torrente, tutta la popolazione operaia, all’annuncio della partenza dei fascisti, si gettò per le vie della città con armi e senza armi, in un’indescrivibile esplosione di entusiasmo, e improvvisando imponenti cortei; mentre dalle finestre delle case di Parma Vecchia, vennero esposti drappi rossi. La notizia della vittoria operaia si diffuse rapidamente anche in provincia. Molti proprietari di terre, presi da spavento perché sentirono che sarebbero arrivati gli «Arditi del Popolo», abbandonarono le abitazioni, fuggendo verso il Cremonese».
Eppure, mentre i socialisti predicavano la necessità di subire passivamente le violenze, nemmeno i comunisti riuscirono a capitalizzare i fatti di Parma, continuando a perseguire la propria linea di più o meno aperta ostilità nei confronti dell’organizzazione (esemplificativo fu il trattamento ricevuto dal comunista Vittorio Ambrosini, fondatore nel 1920 del giornale «Ardito Rosso», e costretto a trasferire la redazione da Milano a San Marino a causa delle accuse dirette alla sua persona).
Il fallimento dei progetti annessionistici della borghesia italiana, con il mito della “vittoria mutilata”, e la conseguente ascesa del movimento fascista, il quale aveva oramai abbandonato ogni demagogica retorica socialisteggiante, segnarono l’inizio di un periodo reazionario che impose al proletariato la necessità di una lotta su due fronti: sul piano internazionale, difendendo la sovranità e l’indipendenza della Patria dalle potenze esterne, e sul piano nazionale, con la lotta ai nemici interni e l’appoggio alle rivendicazioni delle masse popolari lavoratrici. La storia non è finita, ma si ripete, trasformandosi nel tempo ma mantenendo le sue dinamiche fondamentali. L’Italia deve cercare di elevare la produzione e marciare sulla via del progresso sotto la bandiera del socialismo, ma per farlo deve avere in chiaro che la sovranità deve essere un principio totale, anzi totalizzante, e deve dunque uscire dai confini nazionali ed investire tutta la sfera europea e mediterranea assieme. L’Unione delle Patrie oppresse sarà l’inizio della rivoluzione per l’indipendenza dall’imperialismo mondiale. Occorre dunque imbracciare le armi ideologiche e innalzare il vessillo che reca le parole d’ordine di Libertà, indipendenza, socialismo, frutto dell’insegnamento dei maestri di ieri e chiave per la resurrezione sociale-nazionale di domani.