
Di Carola Frediani per GuerrediRete.it
Dopo l’ondata di attenzione e infatuazione mediatica che ha accompagnato il lancio di ChatGPT e di molti altri strumenti di intelligenza artificiale generativa, dopo che per molti mesi si è parlato di vantaggi per la produttività, o di sostituzione del lavoro (soprattutto delle mansioni noiose e ripetitive) con l’AI, siamo arrivati a un punto dove si intravedono più che altro le prime sostituzioni di lavoratori. E ciò sebbene la promessa crescita di produttività lasci ancora molto a desiderare (non parliamo della sostituzione di ruoli).
Mentre gli stessi lavoratori del settore tech (un’élite che per anni ha viaggiato in prima classe anche nelle peggiori fluttuazioni del mercato del lavoro) si sono resi conto di trovarsi in una situazione piuttosto scomoda: più licenziabili, da un lato, e più esposti ai dilemmi etici di lavorare per aziende che hanno abbandonato precedenti remore per contratti di tipo militare, dall’altro.
Partiamo proprio dalla guerra
Una parte di dipendenti di Google DeepMind (l’unità di Alphabet che lavora sull’intelligenza artificiale e tra le altre cose ha rilasciato Gemini, la famiglia di modelli linguistici di grandi dimensioni) stanno cercando di sindacalizzarsi per contestare la decisione dell’azienda di vendere le sue tecnologie ai militari, e a gruppi legati al governo israeliano.
Nelle ultime settimane circa 300 dipendenti londinesi di DeepMind (il cui ad Demis Hassabis è ancora fresco di premio Nobel per la Chimica per AlphaFold) hanno provato ad aderire al sindacato dei lavoratori della comunicazione (Communication Workers Union), riferisce il Financial Times.
Tre persone coinvolte nell’iniziativa di sindacalizzazione hanno dichiarato al FT che la decisione di Google di voler vendere i suoi servizi cloud e la sua tecnologia AI al ministero della Difesa israeliano (si tratta di un accordo sul cloud computing denominato Project Nimbus), avrebbe causato molta inquietudine.
L’iniziativa si inserisce nel crescente malcontento interno rafforzatosi dopo che, a febbraio, Google aveva anche abbandonato l’impegno a non sviluppare tecnologie di intelligenza artificiale che “causino o possano causare danno alla collettività”, tra cui armi e sorveglianza. Si trattava di una presa di posizione adottata nel 2018 e che è sparita dalla revisione dei principi per una AI responsabile lo scorso febbraio (qui la vecchia versione; qui la nuova).
Ma il clima rispetto a qualche anno fa è cambiato: le guerre, la nuova amministrazione Trump, la spinta a commercializzare e rendere profittevoli tecnologie su cui le aziende stanno scommettendo parecchio. E che non stanno rendendo quanto promesso.
Interessante al riguardo uno studio recente che ha esaminato gli effetti sul mercato del lavoro dei chatbot AI in Danimarca. Gli autori affermano che, malgrado la diffusione di questi nuovi strumenti (diffusione incoraggiata spesso dagli stessi datori di lavoro, con relativi investimenti), “l’impatto economico rimane minimo” e i guadagni di produttività sarebbero modesti. Risultati, conclude lo studio, che mettono in discussione la “narrazione di un’imminente trasformazione del mercato del lavoro dovuta all’AI generativa”.
Inoltre, eventuali risparmi di tempo da parte del lavoratore che usa i chatbot sono a volte controbilanciati da ulteriori task, da compiti nuovi o aggiuntivi legati all’uso dello stesso, anche da parte di altri. Un esempio sono gli insegnanti che devono rilevare se gli studenti usano ChatGPT per i compiti, mentre altri lavoratori devono controllare la qualità dei risultati dell’AI o cercare di creare prompt efficaci, commenta Ars Technica (cui rinvio per approfondire il tema visto che segnala anche altri paper, alcuni più ottimistici. Inoltre lo stesso studio qua citato non esclude che degli effetti trasformativi possano arrivare in futuro).
AI e crisi occupazionale
Malgrado ciò, quel che sta arrivando ora sono i primi licenziamenti (primi in senso mediatico, non assoluto) a causa dell’AI (il punto è capire in che senso l’AI ne sarebbe la causa, visto quanto appena detto).
Duolingo, una nota app per imparare le lingue, ha annunciato che “smetterà gradualmente di utilizzare i collaboratori per svolgere il lavoro che l’intelligenza artificiale è in grado di gestire”, in un’e-mail inviata a tutti i dipendenti dal cofondatore e amministratore delegato Luis von Ahn. L’azienda – dice la comunicazione – sarà “AI-first”.
L’email di von Ahn fa seguito a una nota simile che l’amministratore delegato di Shopify Tobi Lütke aveva inviato ai dipendenti e recentemente condiviso online. In quella nota, Lütke affermava che prima che i team potessero chiedere un aumento dell’organico o delle risorse, dovevano dimostrare “perché non possono ottenere ciò che vogliono utilizzando l’AI”.
Nel caso dell’annuncio di Duolingo però non sono mancate critiche e prese di posizione, anche da utenti, riferisce Unilad.
Ma è il giornalista Brian Merchant a raccogliere la testimonianza di uno di quei collaboratori che sarebbero stati lasciati a casa in nome dell’AI. Secondo questa persona, Duolingo avrebbe già sostituito con sistemi di intelligenza artificiale fino a 100 dei suoi dipendenti, soprattutto gli scrittori e i traduttori che creano i particolari quiz e materiali didattici che hanno contribuito a creare l’identità dell’azienda. Secondo questo resoconto, i traduttori sarebbero stati licenziati nel 2023, gli scrittori sei mesi fa, nell’ottobre 2024.
Qua riporto direttamente le parole di Merchant:
“È successo all’improvviso”, mi ha detto il lavoratore, un autore che ha lavorato per anni nell’azienda, a condizione di anonimato. Ha detto che è stato “scioccante” quando ha ricevuto la notizia. “Stavamo lavorando con il loro strumento di intelligenza artificiale da un po’ di tempo, e non era assolutamente in grado di scrivere delle lezioni senza l’intervento di esseri umani”.
“È uno spaccato della crisi occupazionale dell’AI – continua Merchant – che si sta verificando proprio ora, non in un futuro lontano, e che è già più pervasiva di quanto si possa pensare. Il collaboratore di Duolingo non è affatto solo. Quasi tutti gli artisti e gli illustratori professionisti che incontro mi raccontano di aver perso clienti e ingaggi a causa di aziende che si sono affidate all’AI invece di pagare il lavoro umano; alcuni sono stati espulsi del tutto dai loro settori. Ho scritto per Wired di manager che stanno usando l’AI per sostituire artisti e designer nell’industria dei videogiochi. I doppiatori sono in sciopero da 9 mesi, in cerca di protezione dalle aziende che vorrebbero usare l’intelligenza artificiale per clonare le loro voci. Proprio questa settimana, il popolare sito di gaming Polygon è stato venduto alla content farm Valnet, spesso accusata di usare articoli generati dall’AI: quasi tutto il personale umano di Polygon è stato licenziato.
Non è chiaro se questo tipo di licenziamenti sia sufficiente per essere registrato nei dati economici, anche se ci sono segnali in tal senso. Scrivendo sull’Atlantic di questa settimana, il giornalista economico Derek Thompson sottolinea un fenomeno allarmante nel mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione dei neolaureati è insolitamente alto e storicamente alto rispetto al tasso di disoccupazione generale. Perché? Una teoria: le aziende assumono meno laureati per i lavori impiegatizi e utilizzano maggiormente l’AI. (…)
Come ho già scritto in precedenza, la crisi occupazionale dell’AI non è dovuta alla nascita di programmi senzienti intorno a noi, che sostituiscano inesorabilmente e in massa i lavori umani. Si tratta invece di una serie di decisioni gestionali prese da dirigenti che cercano di ridurre i costi del lavoro e di consolidare il controllo delle loro organizzazioni”.
Lavoratori tech
Licenziamenti o peggioramento delle condizioni di lavoro stanno colpendo anche la classe privilegiata dei lavoratori tech, scrive il WSJ. In alcuni casi, commenta un executive coach di aziende tecnologiche, la riduzione di teste “non è perché le aziende non abbiano i soldi. Per molti versi, è a causa dell’AI e delle narrazioni che si sentono in giro su come sia meglio ridurre l’organizzazione”.
Quindi, argomenta il noto giornalista e scrittore Cory Doctorow, dopo l’enshittification delle piattaforme (termine già coniato dallo stesso che indica il progressivo peggioramento, per usare un eufemismo, delle piattaforme digitali nel tempo) siamo di fronte all’enshittification dei lavori tech. Scrive poi Doctorow in riferimento alle narrazioni sull’AI che causano riduzione di personale: “Non si tratta della realtà effettiva dell’AI, ma piuttosto della storia secondo cui l’AI consentirebbe di “ridurre l’organizzazione”, di tagliare gli organici e gli stipendi e di impoverire gli (ex) prìncipi del lavoro. Lo scopo dell’AI non è rendere i lavoratori più produttivi, ma renderli più deboli quando contrattano con i loro capi”,
I lavoratori del settore tecnologico, argomenta Doctorow, possono evitare il destino dei lavoratori delle fabbriche, dei magazzini e delle consegne solo sindacalizzandosi.