STORIA SINDACALISTA

Ma quantunque i sindacalisti avessero aderito – in un primo momento – all’invito socialista alla neutralità assoluta, loro – specialmente il gruppo di “Pagine Libere” – iniziarono ad interrogarsi sulla natura profondamente eversiva del conflitto. A rompere gli indugi, però, ci pensò Alceste De Ambris, che – ad un comizio dell’USI concernente proprio la guerra – spostò la discussione sulla nuova posizione dei sindacalisti che stava mutando.

Nel frattempo l’Eroe marchigiano, in carcere, iniziò ad operare una profonda riflessione circa il metodo di lotta con il quale il Sindacalismo aveva guidato alla ribalta le masse proletarie, con un raggiungimento – tuttavia – molto esiguo rispetto a ciò che si sperava; non solum, sed etiam: Egli mise in discussione le sue certezze nei riguardi delle idee che seguiva, anche in vista degli eventi che precipitavano nello scenario internazionale. In tutti e due i sensi, però, gli eventi della “Settimana Rossa” influirono notevolmente sulla sua maturazione intellettuale di quel periodo. Nel frattempo, Alceste De Ambris e i suoi ruppero gli schemi, ufficializzando l’adesione interventista. Ma tra i sindacalisti, mancava una sola persona all’appello, che – nelle loro speranze – avrebbe dovuto accettare di intraprendere questa nuova via: proprio Corridoni. Proprio De Ambris raccontò dell’incontro in carcere con lui per la sua adesione all’interventismo rivoluzionario: «Ricordo ancora, come se fosse stato ieri, la commozione che ci invase quando ai nostri cenni piuttosto cauti, Corridoni proruppe in una delle sue belle risate prendendo in giro la nostra diplomazia e dichiarandosi completamente d’accordo con noi. Sì, la guerra era un dovere nazionale e rivoluzionario. Sì, dovevamo volerla e farla, non appena l’Italia fosse scesa in campo» – e continua: «Corridoni diceva questo nel parlatorio triste, sotto gli occhi vigili del secondino. Ma nel carcere in cui soffriva ingiustamente aveva già preparato se stesso al sacrificio. La sua giovinezza era l’olocausto che offriva alla patria matrigna, prodiga per lui soltanto di persecuzione di fame». Il 6 settembre venne scarcerato, e la sua nuova epopea ebbe inizio nella radiosa Milano – quello stesso giorno, difatti, rendendo pubblica la sua svolta, lanciò una sonora frecciatina al neutralismo panciafichista dei riformisti, e, in generale, del Partito Socialista: «La neutralità è dei castrati. Noi che siamo e non vogliamo essere tali ci sentiamo per la battaglia. Non intendiamo di disarmare e non disarmeremo per nessuna ragione nella lotta contro la borghesia, le dinastie e i capitalisti di tutti i paesi. Non facciamoci però illusioni e convinciamoci che la propaganda che abbiamo fatta fino a ieri merita qualche cambiamento. Noi non ci dimentichiamo dello spirito patriottico della Comune, come mai ci dimentichiamo della realtà italiana della rivoluzione. La neutralità è voluta dal governo italiano per aiutare l’Austria». Pochi giorni dopo – l’11 di settembre – vi fu il suo primo comizio interventista, in cui – dopo essere stato accolto da fischi – riuscì a conquistare la folla con il suo fascino da trascinatore, al netto di quanti lo tacciarono d’essere un venduto, ai quali rispose: «No, non potete cedere all’accusa mostruosa. Non mi conoscete da oggi. Eppoi, chi fa mercato di se non lo fa per morire, ma per vivere. Siete voi disposti a dare la vita per la vostra idea, come io sono pronto a gettarla per la mia?».

Per tutto il mese di settembre lui e De Ambris tentarono di portare sulle nuove posizione tutta l’Unione Sindacale Italiana, ma non riuscirono nell’intento, e si dovettero accontentare di portare con loro le unioni sindacali di Parma e di Milano, il circolo de’ “L’Internazionale” e altri gruppi minoritari, dando vita alla UIL – Unione Italiana del Lavoro -, che segna una svolta nel socialismo rivoluzionario. Il 10 ottobre fu fondato il “Fascio Rivoluzionario d’Azione Internazionalista” , e il 20 dello stesso mese, Benito Mussolini fu espulso dal Partito Socialista e si dimise da direttore del giornale “Avanti!”. Il mese successivo – per la precisione, 15 novembre – uscì il primo numero de’ “Il popolo d’Italia”. Verso la fine del mese, Corridoni si accinse ad un comizio dinnanzi gli operai. Tuttavia, nel pomeriggio dalla famiglia ricevette la notizia che la madre fosse gravemente ammalata. E «Un grave dilemma si affacciò alla sua mente: correre dalla madre moribonda, o mancare al comizio? Certamente, abbandonare il popolo in quell’ora così difficile per le sue sorti, poteva sembrare fuga o tradimento e gli oppositori neutralisti avrebbero indubbiamente lanciato sul suo conto le più infami calunnie. […] andò al comizio e al popolo parlò con alta e nobile eloquenza. Ma mentre parlava, da un gruppo di oppositori gli venne lanciata un’invettiva calunniosa mirante a svalorizzare le ragioni ideali per cui Corridoni propugnava la guerra. Egli si volse verso il gruppetto degli insani, non fiatò. Ma chi gli era vicino vide una lacrima scendergli per la gota, vide lui trangugiarla in silenzio , penosamente sentii che che il suo pensiero era rivolto alla madre lontana che forse in quel momento agonizzava in un letto di dolore…». Nel dicembre la creazione del 10 ottobre, si trasformò – per mano di De Ambris e Mussolini – nel “Fascio Rivoluzionario d’Azione Interventista”.

In questo mese, Corridoni pose il dilemma sull’immaturità proletaria, e sulla capacità del proletariato di leggere con occhi rivoluzionari questa guerra, con parole profetiche, esemplificative dello sviluppo delle idealità corridoniane, riportate nel giornale “L’Avanguardia”: «La immane catastrofe in cui è piombata l’Europa ha fatto crollare come fragili impalcature di palcoscenico tutte le costruzioni ideali ed umanitarie che i popoli avevano eretto in quaranta anni di pace e di lavoro fecondo. […] ha imposto a tutti un più accurato e profondo esame di coscienza ed una saggia revisione di idee e teorie che oggi […] non presentano più quella impeccabilità […] di quando, conquistati da esse, le albergammo nel nostro cuore e nel nostro cervello […]. Ma vi sono avvenimenti che scuotono la fede più cieca ed incrollabile: la guerra europea è uno di quelli. Noi non credevamo alla guerra immane: è scoppiata: non credevamo al tradimento dei proletari tedeschi ed austriaci: s’è consumato. Quando i nostri governanti ci prospettavano la possibilità di una guerra europea che travolgesse l’Italia […] noi rispondevamo trionfanti che se anche tale ipotesi avesse la possibilità di realizzarsi, lo sciopero generale insurrezionale del proletariato all’atto della mobilitazione avrebbe stroncato la guerra sul nascere. Ci illudevamo. I fatti ci hanno dato la più solenne smentita, e noi […] siamo in dovere di riconoscere che non vedemmo giusto, e siamo in obbligo quindi di riprendere in esame tutti i nostri piani di guerra per conformarli alle esigenze della mutata situazione. […] Se il proletariato è in preda al più angoscioso disorientamento, se egli non vede che il suo male ed il suo bene attuale, imminente, e non ha occhio che guardi al di là delle sue meschinità quotidiane, la colpa è nostra, tutta nostra. Siamo noi che abbiamo sviluppato il suo egoismo bruto e che abbiamo visto in lui un puro e semplice ingoiatore di pane. Ed oggi non dovremmo meravigliarci se non ci comprende o stenta a comprenderci, il problema della guerra è troppo forte per i cervelli proletari. L’operaio non vede nella guerra che la strage, la miseria, la fame: strage, miseria e fame che deve sopportare lui, lui! e quindi è contro le guerre. Che importa a lui se l’attuale guerra può spianare la via alla rivoluzione sociale, eliminando gli ultimi rimasugli della preponderanza feudale […]? Pane, sì, ma anche idee, anche educazione. Bisogni fisiologici, ma anche spirituali, culturali. Il proletariato non è classe finché non ha una coscienza di classe, e questa non si acquista finché l’organizzazione non allargherà i suoi orizzonti di lotta e non combatterà altre battaglie oltre quella del salario e dell’orario. E noi vogliamo, dall’alto di questa libera tribuna, illuminare le nuove vie della marcia proletaria».

Queste parole sono il paradigma – onesto e quasi teso alla verticalità dell’azione – dell’evoluzione intellettuale di Filippo Corridoni e, insieme a lui, di tutta una schiera – per nulla esigua – di sindacalisti, che ebbero il coraggio di porsi sulla via del realismo, operando un rinvigorimento delle proprie idee, con la premessa – teorica quanto pratica – che il Sindacalismo, però, fosse inscindibile (almeno dall’anima del Tribuno). Il suo nuovo intento era chiaro: responsabilizzare il proletariato alla lotta e all’analisi della società, attraverso il sindacato, nervo centrale della futura rivoluzione. Azione, dunque, non soltanto combattiva, ma prima ancora pedagogica, di educazione della massa proletaria volitiva. Istruzione volta ad imprimere nei lavoratori una nuova morale eroica, tanto per la rivoluzione, quanto per la futura conquista dei mezzi di produzione. La rivoluzione delle coscienze e degli spiriti che precede quella sociale: «… l’assunzione proletaria alla gestione della produzione, gli paiono cose troppo remote, perché debba rinunciare alla soddisfazione di qualche appetito presente, in omaggio ad una preparazione morale per l’atto compiutamente rivoluzionario sprofondato nell’avvenire […] il proletariato si orienta […] verso coloro che gli promettono la soddisfazione dei suoi bisogni più elementari ed immediati, senza costringerlo a sforzi e sacrifici, che non verso quelli che, mirando più all’avvenire che al presente, lo spronano a battaglie cruenti con risultati sovente minimi, paghi solo d’aver lottato con onore, con valore e di aver addestrato propri soldati per le più grosse pugne di domani».