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Di Niccolò Alfieri

Oggigiorno anche una generica vulgata assurge da convinzione, e l’ennesima prova di ciò è quella frase che, con corriva sicurezza, viene pronunciata dai tanti: il socialismo ha fallito, passiamo ad altro. Sentenza tipica di liberali, capitalisti, neofascisti e anarchici d’ogni genere, ma talvolta anche sentenza di chi, in qualche modo, auspica una Rivoluzione, guai, però, fosse una Rivoluzione socialista.
Ora, non intendo dilungarmi su un luogo comune quale “il socialismo si è estinto”, in primis poiché se ne potrebbe discutere per un’eternità, ma anche perché, paradossalmente, sarebbe un argomento decisamente vacuo: d’altronde, come può davvero dirsi estinto qualcosa come il Socialismo?
“Non è un fuoco che col vento può morire”, avrebbe detto Lucio Battisti. Ma bando alle digressioni, passiamo al vivo.
Come detto, il canone del “fallimento totale del socialismo”, cioè della fine del movimento socialista – prospettiva vagamente Fukuyamiana -, ormai vige come regola e preconcetto in ogni fronte – sia nei fronti conservatori del sistema, sia in quelli che si dicono in contraddizione con quest’ultimo.
La lotta a cui il Socialismo era predestinato ora viene usurpata da “Destre antisistema”, “Populisti” e “Reazionari rivoluzionari” vari. Forze, quelle anzidette, che acquisiscono spazio proprio grazie alla mancanza di un forte Partito rivoluzionario, e che sì dichiarano guerra – solo a parole – al capitalismo, ma al contempo conclamano a bassa voce e con disinteresse il decesso del movimento operaio, che arriva, alla fin fine, persino a venire equiparato – e ciò diventa molto comodo – all’imperialismo dominante.
Si rivalutano prospettive idealistiche, ci si mantiene su banalità, e tutta la confusionaria “Dottrina” sedicente “polo del dissenso”, coacervo di principi contraddittori e di visioni del mondo che, se non opposte, incongrue, si costituisce slegata da ogni realtà oggettiva: scontato, la lotta di classe pare non esistere, al massimo trasmuta in qualche forma ammaccata, svilita e depotenziata: “popoloh” (senza però la grandezza e l’unità di un popolo) contro “elìt”. Il nemico diventa qualcosa di generico, di difforme a sua volta, e non si identifica nel sistema di produzione capitalistico la matrice della “decadenza”, ma nella parte più esteriore ed epidermica del tutto.
Ciò conduce a un altro capitolo: la classe su cui s’appoggia spesso questa “Rivoliuzioneh”, – che più che una Rivoluzione è una specie di “rivolgimento” di ossa decrepite in una tomba -, ovvero la piccola borghesia, la cui mentalità istintivamente “conservatrice” (intesa come “conversazione dello status Quo) fatica ad adattarsi a una vera prassi sovversiva, dando luce a quell’aberrazione che è il “dizzenzo”, o per meglio dire: “consenso lagnone”.
Piccoli borghesi gelosi delle loro comodità e della loro esistenza mediocre, del loro “status sociale”, assolutamente incapaci di riconoscere nella battaglia proletaria il centro di gravità di ogni cambiamento storico in larga scala. Come detto, si assiste a una rinascita dell’Idealismo, della supremazia della ciarlata sul dominio dell’Azione. Ed è qua che bisogna riconoscere una malattia che non si limita solo a quella gangrena beota di cui si sta discutendo ora: il filosofeggiare vacuo e ignobile è il male di ogni progetto politico che abbia una qualsivoglia serietà e credibilità, ed è il male, quindi, che attanaglia anche il Socialismo. Oggi, formulare nuove teorie politiche, inaugurare ideologie con relativo programma, significa non fare niente.
Quello che vogliamo, dovremmo saperlo già Noi da soli. Di quello che dobbiamo fare, abbiamo un’idea, una via a cui siamo prescelti: conosciamo le leggi della Storia, sappiamo di essere emersi da Essa, sui suoi “solchi ardenti”. Ma per conoscere davvero la nostra missione, possiamo solo agire: l’uomo conosce solo ciò che fa.
La chiacchiera onanistica, la problematica, il dibattito, la sintesi e la tesi, sono cose superate.

Se è vero che “l’azione si perde nell’atto” come ripeteva a gran voce il profondo Carmelo Bene, tutta la masnada dei movimenti politici che nascono ogni giorno ne è prova: nasce un collettivo, un’associazione, un partito, e la sua “vicissitudine” si consuma nella stesura di lunghe pagine di puro nulla. Nessuno passa direttamente all’azione.
Ma andiamo avanti: il movimento che oggi si vanta definendosi “rivoluzionario” vive solo di fatue concezioni buttate una sopra l’altra in una comune riunione di volgarità spirituale. Scrocca tutto ciò che vuole: dal povero Marx al povero Pasolini, mentre qualcun altro fa la lode all’hitlerismo e, qualcun altro ancora, erge Trump a Messia.
Un rigurgito, questo “Dizzenzo”, che viene fuori proprio dalle più grette fauci della cultura capitalista e borghese.
Qualche socialista, o presunto tale, s’è pure infiltrato nella mandria dei cani malati, ma in quello stesso istante ha smesso di essere Socialista: questo poiché ha seguito con infantile fervore la deriva impotente di una società in declino.
L’unica Rivoluzione, senza superbia o tracotanza, è solo la Nostra. Tutto il resto è chiacchiera, ingenuità o malafede. C’è lo schiumare dei piccoli esseri, dei cani bavosi, e c’è la lotta audace, la resistenza tenace di quegli uomini che preferiscono morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio.