Di Niccolò Alfieri

Una storia poco conosciuta

Quella del D’Annunzio socialista è una vicenda poco esplorata, poco conosciuta, dimenticata, obliterata dalla memoria collettiva. Forse anche a causa del luogo comune che relega il poeta abruzzese alle etichette di “amico del regime” o addirittura di “fascista” – intendiamoci, non senza ragioni. Tuttavia, il Vate d’Italia è stato un personaggio complicatissimo, pieno di contraddizioni e di aspetti differenti. Visse una vita sempre alla ricerca tormentosa di nuovi valori e di nuovi ideali, cercò senza posa di rinnovare sé stesso, di spingersi oltre, verso qualcosa di più alto, di più bello, di più grande. La sua ricerca del “sublime” non va, tuttavia, intesa come un opportunismo, una bramosia di potere e di influenza. Ma, bensì, come un imperativo di modus vivendi, come un fine da perseguire in ogni propria rivendicazione, in ogni proprio progetto. Il bello, il grandioso, il magnifico, come principio da imitare nel proprio percorso di vita, come elevazione dell’anima e dei sensi. La bellezza è ciò a cui punta l’opra che si compie, artistica o politica che sia. Non si può altresì negare la continua volontà del Vate di dominare la realtà circostante, di inserirsi come protagonista della Storia. Volontà comune alla gran parte degli artisti di quella precisa epoca, che, mirando a sfuggire dalla soffocante dimensione di “intellettuali di corte”, affermavano, così, la propria centralità negli eventi storici. D’Annunzio è sicuramente uno di questi uomini d’arte determinati a divenire protagonisti, padroni degli avvenimenti e non schiavi di questi ultimi.

Il D’Annunzio decadente

Non era tuttavia quello, l’effetto che il letterato pescarese produceva all’apice della sua carriera: certo, non gli mancò mai animosità, forza volitiva ed audacia, e neanche propensione verso l’inosabile, verso la lotta, verso la ribellione, ma, tuttavia, all’uscita del suo primo romanzo Il Piacere (1889), appariva legato ancora troppo al passivismo crepuscolare degli anni decadenti, al tardo romanticismo sonnacchioso. Da lì, la fama iniziale di poeta fannullone, di rammollito, che correva nelle avanguardie artistiche europee degli anni novanta del diciannovesimo secolo. Allo stesso tempo, lo slancio vitale e sensuale della sua poetica, che esaltava la vitalità della giovinezza e la forza dei sensi, nonché gli insegnamenti tipici dell’Estetismo di cui traboccava il personaggio di Andrea Sperelli (protagonista de Il Piacere), ispirarono moltissimo gli stessi intellettuali all’avanguardia. A sconvolgere non, in sé, il fulcro narrativo de Il Piacere (ossia, il racconto della Decadenza morale della nobiltà italiana, incarnata da un dandy dissoluto che, nel declino, trova unica guarigione nell’ebbrezza e nei piaceri) ma i suddetti valori del protagonista, “fare della propria vita un’opera d’arte”, “habere non haberi” et cetera, che influenzarono non poco certi ambienti dell’Estetismo occidentale. Un po’ come fece -e qui il lettore mi concederà una piccola deviazione- Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, uscito appena un anno dopo il capolavoro dannunziano, con la differenza che, nel libro dello scrittore irlandese, l’ideale espresso è esplicitamente veicolato dalla trama (faustiana inevitabilmente; una provocazione contro la bigotta borghesia vittoriana, ed una ispirazione fascinosa per i giovani studenti ribelli ) e dagli aforismi di Lord Henry Wotton, facendo sì che, nel complesso, il romanzo sia portatore (con fare volutamente mefistofelico, tragico e al limite del proibito) di un pensiero (quello estetico). La figura di crepuscolare lo tiranneggierà ancora per qualche anno, con la fase della Bontà e il poema paradisiaco.

Il D’Annunzio “superuomo”

Sarà la scoperta di Nietzsche a ridare vigore al Vate: la lettura del filosofo di Röcken permette al D’Annunzio, che in quegli anni vive una profonda crisi interiore, di rinnovarsi e rimettersi in forze, approdando una nuova fase della sua poetica, quella del Superuomo. Ed è proprio nella fase superomista che, fuggito dalla “torre d’Avorio”, s’incammina per le strade della storia e dell’avvenire, esaltando la lotta e la volontà di potenza, condannando i valori borghesi soliti del ” filisteo, del tartufo, dell’asino presuntuoso”. Sarà forte, specie nel lato artistico, anche l’influenza di Wagner. La figura dannunziana del superuomo è, tuttavia, uno sviluppo di quella precedente dell’esteta. Il culto della bellezza diventa fondamentale per l’elevazione di sé stessi, con la differenza che, se prima si sdegnava e basta la società, ora la si vuole dominare.

Il D’Annunzio politico

Così, ormai libero dagli orpelli decadenti, si butta nell’attivismo politico: in quegli anni, oltre a celebrare il Superuomo, D’Annunzio si avvicina anche al culto della romanità, dell’Antica Italia grande e potente, consolidandosi in una dimensione patriottica, che lo porterà inizialmente alla Destra – c’è da rammentare che il Vate, a quei giorni, godeva di una forte popolarità nel Belpaese, e alla sua entrata in politica, la gran parte dei partiti tentò di convincerlo. Il suo periodo in quella fazione politica durerà tuttavia meno di tre anni: infatti, già contrario alla repressione condotta da Bava Beccaris durante i moti di Milano del 1898, il poeta passò all’estrema sinistra, verso cui venne attratto da una vitalità e una forza dimostrate durante l’opposizione contro le leggi liberticide e reazionarie del governo Pelloux. D’Annunzio, fiero del suo cambiamento politico, affermò: “Porto le mie congratulazioni all’estrema Sinistra per il fervore e la tenacia con cui difende le sue idee. Dopo lo spettacolo di oggi, io so che da una parte vi sono molti morti che urlano, e dall’altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo di intelletto vado verso la vita“.

D’Annunzio e i socialisti d’inizio ‘900

Dopo il suo “vado verso la vita” del 1900, tra i socialisti e il giovane pescarese si instaurò un’ammirazione reciproca. Alle imminenti elezioni politiche, a D’Annunzio venne addirittura offerta, oltre ad una candidatura, la tessera del PSI. Ciò rifletteva antiche valutazioni di Filippo Turati, il quale considerava Gabriele D’Annunzio un vero rivoluzionario sia nell’arte che nel sociale. Sempre lo stesso esponente socialista, tempo prima, era giunto a definire il Vate “coscientemente ed incoscientemente socialista e ribelle”. L’impegno politico di Gabriele D’Annunzio non si esaurì nel lasso temporale della sua candidatura – i cui risultati furono comunque notevoli. La sua adesione convinta alla Sinistra e al Partito Socialista, provocò anche l’idolatria degli stessi socialisti. Oltre alle notizie che lo riguardavano, l’organo ufficiale del PSI implementò la pubblicazione in prima pagina non solamente di interi articoli del Vate stesso, ma anche di lusinghiere recensioni alle sue opere letterarie – sempre in prima pagina. Le suggestioni dannunziane non colpirono però solo l’estrema sinistra di quello specifico periodo storico, ma segnarono profondamente anche negli anni a venire.

Il D’Annunzio soldato

Partecipò alla prima guerra mondiale, rispolverando un linguaggio nazionalista: allo stesso tempo, dimostrò la propria arditezza e il proprio valore: la “beffa di Buccari” e il volo su Vienna ne furono gli esempi più eclatanti. Uscito dalla guerra con un occhio ferito, D’Annunzio si presentò come voce del popolo italiano, insoddisfatto della vittoria “mutilata”. In quel caso, la sua figura non fu sminuita a quella del poeta con intenti politici, ma identificata con quella del Vate, cantore dell’Italia, nonché condottiero spirituale della patria.

Il D’Annunzio legionario

“Il cardo bolscevico si muta qui in rosa italiana: rosa d’amore” E nel settembre 1919, con lo stesso spirito, guidò drappelli di militari chiamati “legionari”, occupando la città istriana di Fiume e proclamandovi la reggenza del Carnaro. Nonostante questo evento venga spesso erroneamente ricordato come antefatto del fascismo, in realtà a Fiume si attuò la seconda “svolta a sinistra” del poeta, stavolta col fervido sostegno dei socialisti e dei sindacalisti rivoluzionari, dei comunisti e anche dei futuristi. Il 10 gennaio 1920 D’Annunzio nominò capo del gabinetto Alceste De Ambris, sindacalista e socialista, che appena dodici anni prima aveva guidato a Parma il grande sciopero agrario: dalle visioni del comandante e del sindacalista, nacque la costituzione fiumana, la Carta di Libertà. “Io sono per il comunismo senza dittatura. È mia intenzione di fare di questa città un’isola spirituale dalla quale possa irradiare un’azione, eminentemente comunista, verso tutte le nazioni oppresse” La Carta prefigurava una repubblica fondata sulla democrazia diretta e sul decentramento dei poteri, sulla parità tra i sessi, sul concetto di milizie civiche e popolari. Memorabile soprattutto, oltre all’assegnazione alla proprietà privata il ruolo di “funzione sociale”, il sistema economico oscillante tra il sindacato nel senso soreliano e il soviet marxista-leninista. Lo stesso Antonio Gramsci riconobbe la carica rivoluzionaria dell’avventura fiumana, rimanendo affascinato dalla figura dello scrittore pescarese. Imprescindibile supporto logistico a Fiume fu garantito dalla Federazione Italiana dei Lavoratori del Mare del capitano Giuseppe Giulietti, antifascista, le cui navi furono impiegate per raggirare le sanzioni economiche che gravavano sulla città istriana: tra queste è importante ricordare la cattura del piroscafo Persia ed il sequestro del suo carico, ovvero tredicimila tonnellate di armi e munizioni dirette alle armate controrivoluzionarie in Russia. Voce diffusa di quel periodo afferma che nientedimeno che Lenin, al Congresso dell’Internazionale, avrebbe lodato D’Annunzio, definendolo un rivoluzionario. Sono comunque innegabili i rapporti tra Reggenza del Carnaro e Russia sovietica. Personalità che sarebbe un delitto non citare, è, tra le altre, il poeta internazionalista Léon Kochnitzky, cui era affidato il compito di creare una Lega di Fiume che, nei piani, avrebbe dovuto rappresentare una “Santa Alleanza anticapitalista” di tutti i popoli oppressi dall’imperialismo. In ogni caso, in quei mesi Fiume accolse emissari di tutti i principali movimenti rivoluzionari del mondo. Tuttavia, dopo il bombardamento della città, l’esperienza rivoluzionaria finì e il fascismo, formatosi in quel periodo, si appropriò del fiumanesimo.

D’Annunzio e il fascismo

Qui giunge la vicenda più spinosa della vita del poeta, ossia la presunta “compromissione” col fascismo: ma fu davvero una compromissione? Tra Mussolini e il Vate non correva in privato buon sangue, sia per malcelate e reciproche invidie, sia perché, dall’ottica del Duce, D’Annunzio, non essendo un fascista della prima ora ed essendo collegato al mondo “sovversivo”, poteva essere più un nemico che un alleato, considerando anche la sua fama e il prestigio che recava il suo nome. Dal canto suo, il Vate non guardava Mussolini di buon occhio, in primis per la mancata collaborazione ai tempi di Fiume, e successivamente per “l’esilio” al Vittoriale, una mossa del regime per escludere dalla vita nazionale un potenziale ed influente oppositore. D’Annunzio non fu mai entusiasta del fascismo, e non fu mai sicuramente fascista. Contrastò con durezza Mussolini sull’alleanza con Hitler, definendo quest’ultimo un “marrano dall’ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce o di colla ond’egli aveva zuppo il pennello”. E se non bastasse, non solo non fu fascista, ma divenne, almeno agli inizi, un riferimento per gli antifascisti: infatti, a seguito dell’impresa fiumana, l’autore de Il Piacere veniva considerato da molti un possibile avversario dello squadrismo emergente. Ernest Hemingway, in una corrispondenza dalla Svizzera per un giornale americano, scrisse: «In Italia sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Gabriele d’Annunzio». Condivideva (a modo suo) questa opinione il generale Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma e poi capo della polizia, che nel 1922 invitò i prefetti a «controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome, a partire dalla Federazione dei legionari». L’anno successivo, sia la sopracitata Federazione dei legionari, sia i sindacati “dannunziani” e l’Associazione arditi d’Italia si associarono nell’Unione spirituale dannunziana, cui il fine aperto era la resistenza al fascismo. Una raffica di perquisizioni e di arresti condusse al fallimento del progetto. Alla fine, il poeta si arrese a una vecchiaia serena garantita dal regime, ma sedentaria, lontana dalla sue velleità di uomo d’azione. L’ultimo intervento diretto nella vita pubblica da parte del D’Annunzio fu nel 1923, quando si prodigò perché la Federazione italiana dei lavoratori del mare (del suo vecchio sodale e già nominato Giuseppe Giulietti) non fosse inglobata nei sindacati fascisti. Come detto in precedenza, i collegamenti tra socialisti e D’Annunzio sono sempre più dimenticati, forse volutamente estromessi, per dare spazio alla figura di un Vate più “liberale”, più “di Stato”, o per fomentare il mito del D’Annunzio fascista. Sebbene non vi siano rimaste molte tracce nella memoria collettiva storica, D’Annunzio (come dice il suo maggiore esperto italiano vivente, Giordano Bruno Guerri) fu anche socialista, e questa tappa della sua vita ha influenzato sia la Sinistra che il poeta stesso.

Qui sotto lascio una delle prime poesie scritte dal giovane Gabriele, che forse ci fa capire molto di chi era, dei suoi sogni, della sua tempra:

“Voglio l′ ebrezze che prostrano l′ anima e i sensi, gl′ inni ribelli che fan tremare i preti, voglio ridde infernali con strepiti e grida insensate, seni d′etère su cui passar le notti, voglio orgie lunghe con canti d′amore bizzarri, tra baci e bicchieri voglio insanire….” Gabriele D’Annunzio, Ora Satanica

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