
Riallacciandoci a eventi passati e al recente presidio di solidarietà, analizziamo quello che sta succedendo oggi all’Iran: a Occidente si biascica di “regime change”, mentre a sinistra si apre la contraddizione fra sinceri antimperialisti e antimperialisti a giorni alterni.
La nostra presa di posizione, breve nota di Massimiliano Danna
Il SOCIT si è già schierato a suo tempo e continua a schierarsi, forte delle collaborazioni e delle attività che rendono certe prese di posizione ben più che sterili onanismi del momento, accanto a tutti i popoli vittima dell’imperialismo sionista e non, come quello iraniano che si è visto violare la propria sovranità e il proprio diritto all’atomo dalle pretese e dalla ferocia israeliane e statunitensi.
L’organizzazione riafferma i concetti di vicinanza nonostante le differenze, causa comune e percorso anti imperialista comune già affermati durante la conferenza a Roma, ribadendo che non ci uniremo mai alla “crociata” per la Grande Israele che l’Occidente sembra sempre più intenzionato a voler compiere, a scapito del nostro paese e della nostra generazione. In particolare condanniamo con disprezzo la complicità del governo italiano nel giustificare e aiutare il progetto sionista, che andrebbe combattuto sì con l’embargo, invece di quello affibbiato a Cuba. Siamo vicini a tutte quelle organizzazioni che combattono per l’autodeterminazione dei popoli, uniti riusciremo a prevalere sul capitalismo mondiale e il sionismo, questa è la grande certezza del nostro secolo.
Da Non Una Di Meno agli ayatollah, di Giovanni Amicarella per ComeDonChisciotte.org
Noto con piacere che sul tema Iran c’è stata finalmente una sveglia anche in area socialista. Avrei gradito di più se qualcuno in particolare si fosse preso del tempo per smaltire il campismo del femminismo liberale prima di buttarsi, o cercare di farlo, con lo sguardo a Teheran. Quando si diceva che l’Iran fosse un importante attore nella geopolitica della regione si riceveva l’appellativo di “fascisti”, almeno fino a qualche giorno fa. Una questione che ho condiviso con compagni e non, anche in occasione di più eventi dell’ambito iraniano a cui ho avuto modo di partecipare.
Adesso si apre quella che nella squisita terminologia maoista, si definisce contraddizione. Ovviamente, vista da chi ha idee socialiste e patriottiche, è a tutti gli effetti una contraddizione in campo nemico: gli elementi più sinistrati del campo socialista non riescono, neanche sforzandosi, ad accettare il ruolo iraniano. Ne consegue un’incertezza nelle azioni e nelle prassi che lascerà qualcuno decisamente amareggiato. L’apertura di una nuova fase politica extraparlamentare, di consolidamento per chi aveva capito dove si andasse a parare, di disfacimento per chi casca dal pero: c’è qualcuno che mette la lotta al sionismo in secondo piano rispetto alle simpatie per il conservatorismo sociale e i valori tradizionali. Buttano l’analisi geopolitica in favore della soggettività, molto spesso frutto di propaganda occidentalista spudorata.
Non è molto internazionalista voler prendere un modello sociale (ovviamente il proprio), universalizzarlo e appiopparlo sugli altri popoli a mo’ di giudizio morale: è quello che fanno gli statunitensi da sempre. L’Iran ha semplicemente fatto scoppiare una contraddizione delle varie in ambito socialista: supportiamo la lotta all’imperialismo o supportiamo l’idea edulcorata che ci siamo fatti di un certo paese o di una certa causa? L’Iran che contrattacca Israele, Cuba che rafforza le relazioni con la Russia, ecc. sono solamente una parte delle “sveglie” che attendono alcune organizzazioni. Mettendo le mani avanti, anche alcuni progressi e preferenze in termini di alleanze regionali rischiano di mettere gravemente in imbarazzo certi “multipolaristi da divano”, così come magnificare le contraddizioni nei BRICS non rende un’analisi oggettiva, minimizzarne le contraddizioni (basti vedere gli schieramenti nell’ultima “scazzottata” fra India e Pakistan, cioè fra un socio fondatore e un aspirante membro con appoggio russo nel diventarlo) sortisce lo stesso tragicomico effetto: capirci poco, o dover spesso cambiare idea senza però ammetterlo.
La forza dell’Iran vittima delle “guerre imposte” e il Martirio, di Maria Morigi
La recente aggressione all’Iran da parte di Israele supportato da tutti gli alleati occidentali, mi spinge a parlare del conflitto Iran-Iraq (1980-88), provocato dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel Golfo per evitare l’allargamento della Rivoluzione sciita del ’79. Il conflitto fu il più sanguinoso nella storia del Medio Oriente. Saddām Hussein, presidente dell’Iraq dal 1979 già segnalatosi per la repressione degli sciiti iracheni, il 22 settembre 1980 attaccò la Repubblica Islamica dell’Iran, contando sul fatto che l’Iran, dopo la cacciata dello Shāh, non avesse più l’appoggio statunitense. Nel 1981 l’Iran passò al contrattacco. Khomeinī fece leva sull’orgoglio nazionale iraniano, sul coraggio dei volontari e sul coordinamento fra esercito e Pasdaran. Saddām tentò nel 1982 l’apertura di un negoziato, ma Khomeinī volle continuare la “guerra imposta” (Jang-e tahmili) al fine anche di allargare in Iraq la rivoluzione khomeinista del 1979 (in Iraq la maggioranza della popolazione era araba sciita). L’Iraq resistette nel 1983 a tre offensive iraniane, contando sugli aiuti militari di USA, Francia, Egitto, Regno Unito, Germania, Italia ed URSS. Tuttavia, per non favorire la netta vittoria di una delle parti e per la liberazione degli ostaggi americani, Reagan vendette segretamente armi anche all’Iran (la coerenza americana!!!).
Il conflitto si internazionalizzò quando gli Stati Uniti inviarono una flotta nel Golfo Persico col fine di proteggere le rotte petrolifere. Nel 1985, il conflitto investì direttamente la popolazione civile, raggiungendo nel 1988 la massima intensità: gli iracheni inviarono centinaia di missili contro le città iraniane. Temendo che l’Iraq potesse lanciare sulle città ordigni chimici, come era successo contro le truppe al fronte, l’Iran decise di porre fine alle ostilità. Nel luglio dello stesso anno, la Guida Suprema annunciò di accettare la risoluzione 598 dell’ONU. Il 20 agosto la “guerra degli otto anni” finì. Per l’Iran le conseguenze umane, politiche, economiche e militari furono pesantissime, tuttavia la guerra accrebbe il prestigio di Khomeinī presso la popolazione perché seppe dare sostegni governativi alle vedove e alle fondazioni per i martiri di guerra. La guerra eroica contro un nemico comune servì da collante sociale producendo quel legame spirituale che ancora tiene unito il popolo iraniano, come è possibile vedere nelle celebrazioni del “Giorno dei Martiri” quando migliaia di cittadini affluiscono nelle città.
Protagonisti della guerra furono i corpi dei Basij (“mobilitazione”), forza paramilitare composta in gran parte da giovanissimi volontari provenienti dai ceti sociali più umili. Il loro legame con la figura di Khomeinī, segno del sacro comunitario fondato su base affettiva, affermava il primato dello Stato su ogni struttura sociale. Il Martire chiedeva di far parte dei gruppi d’assalto destinati alle operazioni più difficili. L’arruolamento e la battaglia divennero riti di passaggio per cui migliaia di giovani cercarono un senso alla propria esistenza combattendo contro il nemico arabo, alleato con l’Occidente che interferiva sul suolo dell’Islam. Il “passaggio prima della battaglia” fu una pratica che divenne ritualità collettiva con cui i soldati-bambini facevano testamento prima di partire per il fronte. Il Martirio era un atto di purezza, che consentiva la ricongiunzione con i fratelli che già si erano sacrificati per la Rivoluzione islamica.
Oggi in Iran l’appellativo di Martire viene attribuito a chi muore servendo la Stato i cui fondamenti etico-politici stanno nell’Islam quale sintesi di fede ed esercizio politico e unica via per affrontare le iniquità sociali. Anche il Generale Qassem Suleimani è celebrato come Martire e Martiri sono tutti coloro che rimangono vittime degli attacchi del nemico, sia esso Israele o l’Occidente. E se qualcuno da noi, usando a sproposito accuse di Teocrazia / Autocrazia che fanno parte del retaggio della cultura occidentale, è convinto che in Iran sia possibile un “regime change” magari con qualche consistente flusso di denaro per esportare la democrazia, beh, quel qualcuno a mio avviso non conosce affatto né la storia, né la dignità, la fermezza e l’orgoglio di questo grande popolo.
Punti di vista sulla democrazia in Iran, di Maria Morigi
“Nell’Iran senza veli, la sfida delle donne a capo scoperto” titola Repubblica; “Il voto di domani in Iran sarà un referendum pro o contro la Repubblica islamica” scrive un raffinato analista geopolitico di Agenzia Nova; “L’Iran al voto con il timore di un massiccio astensionismo”(Vatican news); “Khamenei alla prova delle elezioni. Ma l’Iran sfiduciato diserterà le urne” (Il Giornale).
Queste sono le certezze occidentali distribuite alla vigilia del giorno in cui in Iran si tengono le elezioni del Majlis (Assemblea consultiva islamica e organo legislativo della Repubblica Islamica dell’Iran -290 seggi) e le elezioni dell’Assemblea degli Esperti. Accanto a questi titoli, il Tg trasmette anche un video delle strade di Teheran in cui si muovono un certo numero di donne senza velo. Il video è commentato con supposizioni di astensionismo per la vittoria delle battaglie femministe. Le democrazie occidentali sono sicure che l’Iran, dominato da corvacci religiosi liberticidi, stia finalmente imboccando la strada della laicizzazione edonistico-liberal, aiutato dal modello occidentale… anche se purtroppo è a capo del Fronte della Resistenza.
Tuttavia, quello che frega le previsioni di noi occidentali è la nostra ignoranza su cosa realmente rappresenti uno “Stato islamico” – in cui politica e religione sono pilastri fondanti del Diritto – e la convinzione di dover giudicare immischiandoci senza tregua coi nostri “Valori” nei fatti degli altri. Così non solo interveniamo a dar lezioni di democrazia a chi non lo richiede, ma ci distinguiamo per record di astensionismo in casa nostra – dagli USA all’India passando per l’Europa – o per record di barbarie (Capitol Hill) o per le infinite discussioni su leggi elettorali a garanzia-poltrona o a garanzia-governabilità.
Mi permetto quindi una breve lezione di ripasso storico perché il Majlis come camera legislativa fu creato a seguito della rivoluzione costituzionale del 1906. Il Paese (allora si chiamava Persia), sotto l’ultima dinastia Qajar e l’incombente minaccia coloniale da parte britannica, stava attraversando una grave crisi economica e finanziaria. I costituzionalisti del 1906 rappresentarono una delle prime espressioni di riformismo e modernismo islamico ad imitazione parziale di modello occidentale, sostenuto dai britannici per puri interessi coloniali (l’ esportazione di democrazia venne di moda più tardi con gli americani). Infatti già nel 1907 i britannici abbandonarono i costituzionalisti persiani per accordarsi con i russi sulla spartizione della Persia in zone d’influenza. L’intervento militare zarista bombardò il Parlamento di Teheran nel 1908. I costituzionalisti riuscirono a riconquistare la capitale nel 1909 e per risanare le finanze fu assunto un consulente americano, il banchiere americano Morgan Shuster. Dalla padella nella brace, e la nobiltà Qajar rifiutava di pagare le tasse. Fu chiesto nuovamente aiuto alle truppe zariste che intervennero una seconda volta. Comunque il sistema parlamentare sopravvisse.
Nel 1925 il Parlamento votò la fine della dinastia Qajar e iniziò la dinastia Pahlavi durante la quale, almeno nei primi anni, il ruolo del Majlis fu solo formale. La Camera entrò realmente in funzione durante la seconda guerra mondiale, con l’occupazione alleata e l’ascesa al trono (1941) dello scià Mohammad Reza Pahlavi. Negli anni Cinquanta l’ex oppositore Mohammad Mossadeq divenuto primo ministro, nel 1953 abolì il Majlis per governare con poteri eccezionali e riuscire ad estromettere le compagnie britanniche che avevano in concessione lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi. Mossadeq venne presto eliminato da un colpo di stato organizzato dai servizi segreti britannici e americani. Da allora i poteri del Parlamento furono limitati e il governo tornò ad essere autocratico. Da parte sua lo scià Reza arricchì se stesso e l’ élite con rendite petrolifere, clientelismo e una spinta occidentalizzazione.
Con la rivoluzione iraniana dell’Ayatollah Komeini del 1979, cadde la monarchia, fu abolito il Senato e, nel 1989, fu creata l’Assemblea consultiva islamica regolata dal Capitolo VI della Costituzione dell’Iran approvata nel 1979. L’Iran diventava così una repubblica a Parlamento monocamerale in cui il Majlis ha il compito di discutere, approvare o respingere le leggi. Non elegge il presidente della Repubblica, i cui candidati vengono presentati dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione e successivamente uno di loro viene scelto a suffragio universale. Dal 1997 le donne, oltre ad essere già elette come deputate e ammesse dal 1963, sono entrate nel gabinetto di governo ( Masoumeh Ebtekar vicepresidente dell’Iran con delega al Dipartimento dell’Ambiente).
Istituita nel 1982, l’Assemblea degli Esperti dell’Orientamento (Majles-e Khobregān Rahbari) è composta dal 2016 da 88 membri (Mujtahid) eletti ogni 8 anni secondo il sistema uninominale/maggioritario secco dopo il controllo del Consiglio dei Guardiani della Costituzione e l’approvazione della Guida Suprema dell’Iran. Essa elegge e revoca il Rahbar (Guida Suprema). L’Assemblea non ha mai messo in discussione la stabilità della Guida Suprema (Ali Khamenei), anche se molti analisti occidentali oggi si affannano a sperare che l’Assemblea degli Esperti stia diventando un corpo cerimoniale senza poteri reali.
Date queste informazioni, invito a riflettere senza pregiudizi sul ruolo e la nuova autorevolezza che recentemente ha l’Iran, ormai entrato in organismi internazionali (SCO e BRICS) e in rapporti inediti con Arabia saudita e Stati del Golfo, Pakistan, Afghanistan, India e Cina. Decenni e decenni di sanzioni, accuse di teocrazia, demonizzazioni per assenza di democrazia non sono evidentemente riusciti a produrre granché. Infatti, fino a quando tutta la propaganda sarà fondata sull’ignoranza delle motivazioni storiche e sulla distorsione diffamatoria delle realtà presenti, non andremo da nessuna parte.