
Di Jean-Claude Martini per ifattieleopinioni.com
La trasparenza nell’informazione è un argomento tornato prepotentemente al centro del discorso politico internazionale in questi giorni, allorché l’Occidente, come già fatto con Manuel Noriega, Saddam Hussein, Osama Bin Laden e non solo, si prepara a scaricare il vassallo Volodymyr Zelensky per aver pestato i piedi sbagliati con l’attacco alle agenzie di anticorruzione con cui UE e USA hanno gestito per intermediari l’allocazione dei loro stessi fondi in Ucraina.
A ben vedere, tuttavia, si tratta di un problema interno agli stessi burattinai dell’imperialismo internazionale, soprattutto in uno degli ambiti prediletti per il loro esercizio del doppiopesismo che ormai senza più alcuna finzione o maschera li contraddistingue: l’impiego dell’energia atomica, per autodifesa o sviluppo pacifico che sia. Certo, perché con la stessa noncuranza si può bombardare e far bombardare l’Iran per dodici giorni nonostante Teheran abbia sempre specificato le finalità pacifiche delle sue ricerche atomiche (cui è costretto, del resto, dalla fatwa emanata dall’Ayatollah Khamenei nel 1997), e tacere al contempo sul segreto di Pulcinella del possesso di vere e proprie armi atomiche da parte di Israele.
L’evidente “feticismo” di Washington per la dotazione di queste ultime ai regimi di apartheid emerge tuttavia nel segreto che tutt’oggi si mantiene sul Sudafrica pre-mandeliano e su quello che è passato alla storia come Incidente Vela.
Nel settembre 1979, si ricorderà, il satellite statunitense 6911 della classe Vela Hotel rilevò nell’Oceano Indiano un “doppio lampo” tipico delle esplosioni nucleari, a poche miglia dalle coste sudafricane. Le inchieste che ne seguirono dettero risultati a dir poco contraddittori, in un tentativo di abbuiare un episodio su cui infatti non è mai stata fatta chiarezza, sebbene, al netto delle manovre censorie, qualche prova “collaterale” e circoscritta di un’esplosione nucleare sia stata rinvenuta. Torbida è stata anche l’indicazione delle responsabilità: sia Sudafrica che Israele negarono tutto, gli Stati Uniti cercarono di coprire per quanto possibile (più Israele che il Sudafrica, col quale le relazioni erano già tese per il prosieguo dell’apartheid ufficiale) e di spostare la colpa, manco a dirlo, su URSS e Cina. Non si escluse nemmeno la pista francese, avvalorata da un’ipotesi del giornalista David M. Bresnahan che ricordò, nel 1999, come un esperimento di questo tipo ebbe effettivamente luogo proprio con la collaborazione americana.
Si tratta sostanzialmente, in ultima analisi, di un segreto di Pulcinella: è noto che il regime sudafricano cercasse di dotarsi dell’arma atomica in combutta col suo omologo sionista, in cui, a differenza che a Johannesburg, l’apartheid vige de facto ancora oggi, sentendo vicina la fine dei propri giorni e cercando una tutela maggiore da “influenze esterne” vere e presunte. Un pericolo che nemmeno gli Stati Uniti si sono sentiti di correre, affrettandosi perciò a sganciarsi da ogni sostegno alla dittatura di Vorster e affrettandone così la fine.
Se dunque per zio Sam è relativamente più facile porre fine a certe ambizioni autonomiste dei suoi sottoposti (vedasi anche la parabola di Saddam in Iraq), meno lo è gestire quelle dei Paesi esterni al Washington Consensus. Nell’“Asse del Male 2.0”, indicato dalla defunta amministrazione Biden in Russia, Cina, Iran e Corea del Nord, Teheran è stata individuata come “l’anello debole” e questa valutazione, non del tutto corretta, è stata il terreno di coltura per la guerra di giugno messa in pausa dopo dodici giorni e pesanti contraccolpi subiti da chi l’ha provocata. Gli eventi susseguitisi hanno fatto giungere parecchi analisti militari alla conclusione secondo cui l’assenza di armi atomiche nell’arsenale iraniano e la solerzia della Repubblica Islamica nel conformarsi alle normative unilaterali dell’AIEA hanno facilitato gli appetiti bombaroli dei due Paesi stellati. Non poteva non venir formulato, alla luce di ciò, un paragone nettamente contrastante con la prassi seguita da Pyongyang, uscita dal TNP per molto meno già nel 2003, due anni prima di annunciare il possesso della bomba atomica e tre prima di testarla. Facile la conclusione: se l’Iran avesse seguito la strada nordcoreana, nessuno l’avrebbe bombardato.
Ben si capiscono, quindi, l’origine e l’essenza dell’atteggiamento degli Stati Uniti verso i detentori dell’arma atomica, a seconda della loro appartenenza o meno al “mondo libero”. Chi quell’arma la possiede, anche se in quantità non astronomiche, è fondamentalmente tutelato se adotta anche una politica intransigente verso Washington: è il motivo per cui essa esita a scatenare una guerra nella penisola coreana, laddove la RPDC è l’unico Paese che ha minacciato, e ripetutamente, di colpire direttamente il territorio statunitense in caso di aggressione, ma è anche quello per cui l’Unione Europea esita a intervenire militarmente e in forze in Ucraina, alla luce della recente revisione della dottrina nucleare russa.
Al Pentagono devono davvero aver ragionato come in quella vignetta ormai famosa:
«Abbiamo attaccato l’Iraq perché aveva le armi atomiche»
«Allora attacchiamo anche la Corea del Nord»
«Siete pazzi? Hanno le armi atomiche!».