
Di Erica Orsini per sinistrainrete.info
A un anno dalla sua elezione, il premier Starmer è travolto da una crisi senza precedenti. Mentre l’ex leader laburista Jeremy Corbyn lancia una nuova iniziativa politica che in 48 ore raccoglie oltre 400.000 adesioni, Starmer rischia di perdere il controllo del Paese e del suo stesso partito. Tra errori politici, spaccature interne e difficoltà nella gestione delle emergenze, appare sempre più isolato e distante dalle promesse di cambiamento. A complicare il quadro, la sua controversa gestione della crisi israelo-palestinese. Ritratto senza veli del primo ministro britannico, scritto dalla giornalista Erica Orsini, che ha vissuto metà della vita a Londra e ha da poco pubblicato il libro «Noi e loro».
Il 23%: è questa, al luglio 2025, a un anno dalla sua salita al potere, la percentuale di consensi tra i britannici per il premier laburista Keir Starmer. Secondo YouGo, si tratta del peggior risultato rilevato nello stesso mese tra il luglio 2021 e il maggio 2025.
Un collasso verticale, che non si è verificato per nessuno degli altri leader politici inglesi attuali, neppure per la conservatrice Kemi Badenoch, la leader dell’opposizione che pure non è particolarmente gradita agli elettori. A metà del 2024, in piena campagna elettorale, il 51% aveva un’opinione positiva del candidato Starmer, contro il 44%, ora a pensarla così sono rimasti meno della metà.
Al giro di boa del suo primo anno al potere, nel Regno Unito non c’era un quotidiano o un’emittente televisiva che non fotografasse un primo ministro in caduta libera, travolto da un’ondata d’impopolarità clamorosa, impegnato a tenere a bada sia un’opinione pubblica fortemente delusa nelle aspettative sia un forte dissenso interno.
E a qualcuno questo può sembrare un paradosso, perché tra i leader laburisti che si sono succeduti, Sir Keir è forse quello che ha maggiori radici nella working class, sia come ambiente familiare di provenienza sia come stile di vita.
Suo padre, con il quale ha avuto una relazione difficile, era un operaio specializzato e la madre un’infermiera che ha dovuto smettere di lavorare perché colpita dal morbo di Still, una patologia cronica che alla fine l’ha paralizzata e costretta in un letto. Unico a laurearsi dei suoi quattro fratelli, si specializza in diritti umani ricoprendo l’incarico di direttore della Procura britannica dal 2008 fino al 2013 difendendo, tra gli altri, richiedenti asilo ed ecoterroristi.
Con il suo sguardo impassibile e il carattere schivo, agli elettori si era presentato quasi come un politico «riluttante», il compagno della porta accanto, quello che ti ritrovi seduto accanto allo stadio a tifare per l’Arsenal o a bere una birra in un pub. Mai sopra le righe, quasi noioso con i suoi colleghi, ha giocato la carta dell’uomo della svolta, quello che si assume la responsabilità di riportare sulla breccia una forza politica franata clamorosamente, sotto la guida di Jeremy Corbyn, alle elezioni del 2019.
Lavora sotto traccia Keir, che non ama troppo essere chiamato Sir, ma già nel 2020, dopo le dimissioni del suo predecessore – politico sicuramente troppo scomodo per la parte moderata dell’elettorato laburista britannico – e nello scontro con quest’ultimo, la sua personalità politica inizia a delinearsi.
Nell’azione di cambiamento e di spostamento verso il centro del partito, già s’intravede un pragmatismo spiccato, uno modo di agire cauto e sempre molto ragionato, completamente scevro dall’ideologia valoriale, che invece è così presente in Corbyn, e che in questi ultimi mesi lo ha spesso reso indigesto alle frange più a sinistra del Labour.
Come racconta il suo biografo Tom Baldwin, Starmer è una persona che va avanti per la sua strada, impara dagli errori fatti, senza mai mollare. Ma è anche uno, come ebbe a dire uno dei suoi primi consulenti personali, Chris Ward, che non ha mai voluto sentirsi legato a una parte specifica del Labour.
«Penso sia perché non ha speso tutta la sua vita nel partito» spiega Ward «e il partito non è mai stato tutta la sua vita e non lo è neppure adesso. Ecco perché è capace di vincere una corsa alla leadership facendo leva sulla sinistra moderata eppoi guidare il Labour da una posizione di centro-destra». Prosegue Ward: «Per lui è importante raggiungere l’obiettivo, vincere le elezioni e cambiare il Paese. Ed è abbastanza in gamba da riuscire a trovare il supporto delle varie anime laburiste in differenti momenti a seconda della necessità».
Che la competitività sia un fortissimo tratto del suo carattere, è lui stesso ad ammetterlo. In un’intervista rilasciata subito dopo la vittoria si dice un tantino rammaricato nello scoprire che la percentuale di voti con cui ha superato i conservatori non è riuscita a raggiungere e superare quella ottenuta da Blair nel 1997.
Dall’inventore della Cool Britannia, in realtà, lo dividono molti aspetti caratteriali. Ma in lui quel pragmatismo politico che è un tratto generale del popolo britannico, che si rispecchia quindi anche nei suoi rappresentanti istituzionali, sembra trasformarsi in puro opportunismo, totalmente privo di slancio ideale, minato spesso dal sospetto di una mancanza di competenza.
Le posizioni assunte da Starmer in questo primo anno di mandato, sono spesso risultate molto controverse, se non incomprensibili, soprattutto al suo elettorato. Le misure economiche – decise per mantenere la promessa elettorale di non aumentare le tasse – come il taglio del bonus riscaldamento o la riduzione delle agevolazioni ai disabili – hanno sollevato un tale dissenso, nell’opinione pubblica e all’interno del partito, da costringere il governo a clamorose retromarce. Decine di parlamentari si sono dimessi perché non si sentivano più a loro agio in una forza di governo che non assomigliava più a quella in cui avevano militato per decenni.
L’approccio scelto per la lotta all’immigrazione clandestina è tutt’oggi fonte di profonde spaccature interne. E lo stesso Starmer ha ammesso che la frase «Non diventeremo un’isola di stranieri» è stata un errore clamoroso, di cui si è pentito assumendosi ogni responsabilità. Frase proferita in Parlamento, mentre presentava nuove misure sul tema dell’immigrazione, che sono state pesantemente criticate. Secondo molti osservatori, quelle parole riecheggiavano il celebre discorso «fiumi di sangue» del conservatore Enoch Powell, pronunciato nel 1968, in cui sosteneva che la popolazione britannica bianca sarebbe diventata «straniera nel proprio Paese».
«Avevo appena saputo che la nostra casa a Kentish Town era stata incendiata, ero turbato e non avevo nessuna voglia di fare un discorso pubblico» ha raccontato al suo biografo. «Non ho letto con attenzione il discorso che mi avevano preparato. Non avrei usato quelle parole, né l’avrebbe fatto il mio speechwriter, se avessi pensato che avrebbero potuto venir interpretate come un’eco di Powell. La verità? Mi rammarico profondamente di averle dette».
Troppo poco come giustificazione per uno che, a ogni modo, ha strizzato l’occhio al sistema italiano di Giorgia Meloni e continua a pensare di inviare nei Balcani tutti gli immigrati a cui sarà rifiutato il permesso di soggiorno. Peraltro, Starmer non è ancora riuscito a mettere mano alla situazione degradata dei centri di accoglienza presenti nel Paese.
Travolto da una crisi economica globale a cui si sono aggiunte le conseguenze della Brexit, il Paese è in ginocchio. Il tasso d’inflazione è al 3,6% e il deficit di bilancio di 44,5 miliardi di sterline nei primi tre mesi dell’anno finanziario iniziato ad aprile (5 miliardi in più rispetto alle previsioni dell’Office for Budget Responsibility). L’economia nazionale segna il passo e rivela che per ora le promesse di riportare in carreggiata il Paese lasciato allo sbando dai conservatori, per ora sono andate deluse.
Una situazione a cui gli italiani sono abituati ormai da decenni, ma che suscita indignazione e disincanto nell’opinione pubblica britannica avvezza, prima della Brexit e della pandemia a condizioni economiche migliori. In tutti questi mesi, le grandi riforme promesse da Starmer non sono partite e il suo governo si è limitato a far fronte alle varie crisi, peccando più volte di ingenuità e di disorganizzazione, perfino sul piano della comunicazione.
Se sulla gestione del post Brexit, questo leader, da sempre convinto europeista, sta facendo di tutto per rientrare in Europa dalla porta di servizio, sostenuto dall’entusiasmo dell’Unione europea, che mai come in questo momento ha bisogno di alleati importanti sul fronte della Difesa, oggi è piuttosto la posizione nel conflitto israelo-palestinese a metterlo in seria difficoltà.
Per estromettere Corbyn dal Labour, proprio Starmer aveva fatto leva sulle sue aperture al dialogo con Hamas. A quanto pare, però, il suo vecchio compagno di partito, che già si era ripreso una rivincita personale riconquistando come indipendente il vecchio seggio di Islington North, battendo il candidato laburista che avrebbe dovuto sbarrargli la strada, è destinato a dargli nuovo filo da torcere.
Il 24 luglio scorso Corbyn ha confermato di aver raggiunto un accordo con Zarah Sultana (una dei sette deputati laburisti sospesi dal partito perché in contrasto con una misura della riforma del welfare) per lanciare una nuova forza politica di sinistra che porta il nome temporaneo di Your Party.
Nella nota congiunta diffusa, i due fondatori presentano come una delle richieste prioritarie la fine della vendita di armi da parte del Regno Unito a Israele e si propongono di difendere «il diritto di protestare contro il genocidio».
Sicuramente quello della guerra a Gaza è il tasto più delicato per il governo britannico e per lo stesso Starmer, che finora non è riuscito a discostarsi da mere dichiarazioni d’intenti, senza però passare ad azioni concrete. Il suo punto di vista, da sempre fin troppo cauto, lo inchioda in una posizione da cui è difficile districarsi, soprattutto perché legata a filo doppio alle relazioni con gli Stati Uniti.
Finora Starmer è stato l’unico interlocutore abbastanza abile da riuscire a strappare a Washington dazi ridotti rispetto a quelli imposti agli altri Paesi dalla vendetta commerciale trumpiana. Negli scorsi mesi, con il sangue freddo che da sempre lo caratterizza, ha aggirato l’ostacolo, evitando di affrontare di petto le minacce dell’imprevedibile Donald, lusingandolo invece con una lettera d’invito personale di Re Carlo per una visita ufficiale a Londra.
Sugli attacchi israeliani, ha utilizzato la medesima strategia, attendendo fino a che gli è stato possibile prima di condannarli definitivamente. Difficile dire quanto conti in questo caso l’influenza della moglie Victoria, ebrea, anche lei avvocato, conosciuta nel 1997 quando faceva la volontaria nella campagna di Tony Blair.
Essendo Starmer ossessionato dalla difesa del suo privato e della sua famiglia, di sua moglie si conosce soltanto il necessario, ma i due figli sono stati cresciuti nella religione della consorte, che l’ha introdotto nella comunità ebraica londinese. «Se essere sionisti s’intende una persona che crede nell’esistenza dello Stato d’Israele, allora in questo senso sono sionista» ha dichiarato in passato Starmer al quotidiano Jewish Chronicle.
Sarebbe tuttavia fin troppo ingenuo pensare che la posizione del suo governo non sia dettata anche da forti interessi economici. Nel settembre del 2024 il Regno Unito ha sì sospeso una trentina di licenze per la vendita di armi o componentistica a Israele che potrebbe essere utilizzata nel conflitto, ma ne ha lasciate in essere altre 200, senza specificare di che tipo di licenze si tratti. E ha escluso dalla sospensione il programma relativo alla fornitura dei caccia F-35.
Lo scorso maggio, il Guardian ha pubblicato una ricerca congiunta, effettuata da Palestinian Youth Movement Progressive International e da Workers for a Free Palestine, che spiega come le aziende britanniche abbiano continuato a inviare a Israele migliaia di componenti militari, munizioni incluse, in chiara violazione della decisione governativa. Ma il portavoce del Foreign Office ha insistito nel sottolineare che «le licenze di esportazione rimaste in essere, in maggioranza non sono per l’esercito israeliano e non sono usate quindi nella guerra a Gaza».
A ritmo incalzante, in questi mesi le associazioni umanitarie come la Croce rossa e Oxfam hanno chiesto direttamente a Starmer una ferma condanna del comportamento di Israele. Dichiarazione che è arrivata da parte del premier soltanto nella prima settimana del giugno 2025, quando il primo ministro ha definito «scioccante, controproducente e intollerabile» l’azione del governo Netanyahu, sostenendo la necessità di «un ritorno al cessate il fuoco e di un rilascio degli ostaggi».
Il 21 luglio, anche il Regno Unito ha sottoscritto, insieme ad altri 24 Paesi, una lettera di condanna sulla strage di civili a Gaza, ma si tratta pur sempre dello stesso esecutivo che ha bandito il movimento Palestine Action come organizzazione terroristica, criminalizzandone il sostegno e l’attività. Per il solo motivo di essere pro-Palestina e di aver partecipato a una manifestazione di protesta a Cardiff, Marianne Sorrell, un’insegnante in pensione di 80 anni, si è vista perquisire la casa ed è stata trattenuta dalla polizia per 27 ore.
La mancanza di un’azione concreta verso la tragedia in corso a Gaza sta mettendo il governo laburista sempre più in difficoltà. Quando il ministro degli Esteri David Lammy si è presentato in Parlamento per leggere una nota di condanna ufficiale verso l’uccisione di civili affamati da parte degli israeliani, la risposta trasversale di tutti i partiti è stata di rabbia non trattenuta. «Vogliamo fatti e questi non lo sono» hanno tuonato dai banchi laburisti. «Tutto qui?» ha chiesto un deputato, mentre un terzo domandava: «A quale punto della nostra umanità dobbiamo arrivare per prendere un’iniziativa più forte?».
Un membro dei conservatori ha osservato che «le parole non sono abbastanza», mentre un esponente liberal-democratico sottolineava che «le ripetute espressioni di rammarico non hanno prevenuto ulteriori carneficine». Il giorno dopo Sadiq Khan, sindaco musulmano di Londra, ha nuovamente invocato il blocco della vendita di armi a Israele e il riconoscimento dello Stato di Palestina. Richiesta presentata a Starmer anche da una trentina di ex ambasciatori e diplomatici britannici, mentre, secondo il quotidiano Guardian, anche lo stesso esecutivo si sta spaccando sulla questione.
Inizialmente il piano britannico di riconoscimento dello Stato di Palestina faceva parte di un più generale processo di pace portato avanti soltanto insieme con altri Paesi occidentali. Ora però sembra che il massacro di civili che si sta consumando abbia indotto parte del gabinetto a fare ulteriori pressioni sul premier tuttora «dormiente».
Rimane da vedere come reagirà Sir Keir, che oltre a non aver mai nascosto i suoi solidi legami con la comunità ebraica, mal tollera anche il dissenso interno. Il 16 luglio il Labour ha sospeso quattro parlamentari che si erano dichiarati contrari alla proposta di legge sul taglio dei benefit ai disabili. Al giro di boa del suo primo anno di mandato, Starmer il pragmatico si trova dunque con un partito spaccato e con numeri sempre più risicati, oltre che con un’opinione pubblica tutta da riconquistare. Non sarà una missione facile.
Intanto, il partito di Jeremy Corbyn e Zarah Sultana decolla. In sole 48 ore, circa 400.000 persone hanno registrato il proprio interesse a sostenere il nuovo progetto politico che punta a costruire un’alternativa di sinistra al Labour. Ed è solo l’inizio. Il congresso fondativo è previsto per l’autunno, quando verranno decisi nome definitivo, struttura organizzativa e linea politica.