cipro-nord-e-sud

Di Jean-Claude Martini per ifattieleopinioni.com

Tra Turchia, Grecia e…Israele: il calvario di Cipro

Nelle scorse settimane ha destato scalpore un articolo pubblicato sul Times of Israel riguardo a una presunta operazione militare anglo-israeliana (nome in codice Wraith of Neptune, Ira di Nettuno) volta a “liberare” Cipro Nord dalla presenza turca.

Indipendente dal 1960 dopo un lungo periodo di occupazione britannica, l’isola è stata negli ultimi decenni travagliata dagli scontri tra la popolazione di origine greca e quella di origine turca. Il governo dell’arcivescovo Makarios, il primo dall’indipendenza, non ha mai voluto creare un senso di identità nazionale e si è profondamente sbilanciato verso la Grecia. Grecia che nel 1974 appoggia apertamente un colpo di Stato che mette al potere il “giornalista” Nikos Samson, il quale si dà subito a operazioni di pulizia etnica verso i cittadini turchi.

La Turchia decide di intervenire a loro protezione e sbarca nel Nord dell’isola dando vita a una zona di occupazione che nel 1983 prenderà le forme di uno Stato indipendente, per quanto riconosciuto solo dalla Turchia stessa. Quello che rimane della Repubblica di Cipro oggi fa parte dell’eurozona e fino al 2012 ha cercato di attirare capitali esteri attraverso un meccanismo di segretazione bancaria che gli eurocrati e gli americani hanno fatto saltare provocando una crisi economica dalla quale non si è ancora vista ripresa. Cipro turca ha messo in atto politiche simili con maggiore successo e oggi viene considerata uno dei Paesi più “business friendly” nell’area del Mediterraneo. Nonostante il fallimento delle trattative per riunificare Cipro sotto un unico governo, oggi vari posti di frontiera consentono di passare facilmente da una parte all’altra. A complicare ulteriormente la situazione dell’isola, gli inglesi a tutt’oggi mantengono una serie di basi aeronavali, spesso usate in operazioni di esportazione della democrazia.

Da più parti gli inglesi sono stati accusati di avere appoggiato operazioni israeliane verso il Libano e Gaza, così come nello scorso giugno contro l’Iran. La cosa certa è che aziende israeliane stanno comprando in massa terreni e proprietà immobiliari: molti sono convinti che sia in atto un vero e proprio progetto di espansione verso un’isola che di fatto rappresenterebbe per gli israeliani una base avanzata dalla quale condurre operazioni di ogni tipo, civili e militari, nell’area del Mediterraneo orientale.

Non sappiamo se l’ipotesi di un conflitto anglo-israelo-turco sia solo una provocazione, oppure una fuga di notizie volta a screditare un governo Netanyahu sempre più imprevedibile e fuori controllo: quello che è certo è che nello stesso Israele le imprese di “Bibi” hanno sempre meno consenso, anche tra le forze armate. Che stia pensando di trascinare tre Paesi in una guerra su vasta scala solo per restare al potere come ha fatto negli ultimi anni? (IFO)

Mentre a livello mondiale tutti gli occhi sono puntati su Gaza e la Cisgiordania, ancor più ora che la Knesset ha deciso anche formalmente di annettere entrambe e fagocitare così l’intero Stato di Palestina, l’espansionismo israeliano sta solcando altri mari in un silenzio tanto unanime quanto per ciò stesso assordante. Solo l’East Journal fa eccezione a questo stato di cose: stiamo parlando degli insediamenti ebraici in costruzione a Cipro. Un processo in corso dal 2021, che ha portato all’acquisizione di 4.000 proprietà subito trasformate in recinzioni chiuse senza possibilità d’accesso per chi non è cittadino israeliano.

È stato il segretario del Partito Progressista dei Lavoratori di Cipro (AKEL), Stefanos Stefanou, a denunciare, poco più di un mese fa, l’ampliamento di questi acquisti ad opera di investitori che ora stanno formando anche sinagoghe e scuole sioniste espandendosi anche nel settore dell’intelligence, col Mossad che prende sempre più piede. Tutto alla luce del sole e ammesso dalla stessa stampa di Tel Aviv, che ne evidenzia il carattere mirato e sistematico attraverso il programma Golden Visa, che consente di acquisire la cittadinanza cipriota investendo nell’immobiliare e ha già visto i primi risultati comparire in forze a Larnaca e Limassol. Situate entrambe sulla costa della parte controllata dai greci, tale scelta non è certamente casuale e anzi è ulteriore prova della predilezione del mare nell’ottica talassocratica dei sionisti: dai 6.500 residenti nel 2018 si è giunti ai 15.000, probabilmente già sorpassati, di quest’anno.

Alla questione cipriota si aggiunge dunque un nuovo, inquietante tassello: se questo apparente “trasferimento” in massa tradisca la volontà di ricostruire un nuovo “Stato di Israele” dato il decadimento generale che sta attraversando quello “originale” (economico, politico e militare), questa penetrazione non va sottovalutata e non è meno insidiosa della contesa greco-turca sull’isola.

Questa è una delle più ambigue nel panorama geopolitico moderno: iniziata a metà anni ’70 nel contesto della deposizione di Makarios III ad opera dei Colonnelli greci, essa vide i turchi intervenire a due riprese ufficialmente per la «protezione della minoranza turca» residente sull’isola, facendone nascere un conflitto sottotraccia ma non per questo poco brutale, con massacri da entrambe le parti, con le autorità greche emerse dal colpo di Stato filo-ellenico del 1974. Il secondo intervento turco, propiziato dalla caduta del regime dei Colonnelli, vide le forze di Ankara avanzare fino a occupare metà della capitale Nicosia (Lefkoşa in turco) e circa il 40% di tutto il territorio dell’isola, la cui parte nord proclamò unilateralmente l’indipendenza nel 1983, riconosciuta ad oggi dalla stessa e sola Turchia; neanche gli alleati azeri, nonostante le pressioni di Erdoğan, l’hanno finora seguita. In seguito al fallimento del piano di Kofi Annan per la riunificazione dell’isola nel 2004 la paradossale situazione in cui un membro della NATO occupa parzialmente il territorio di un altro membro della NATO (e dell’UE) è rimasta sottaciuta fino a tempi recentissimi, allorquando la Conferenza sul Mediterraneo Orientale, indetta dal Centro Nazionale di Strategia a Istanbul il 18 e 19 luglio sotto il titolo Eastern Mediterranean – Black Sea Conference 25, ha inserito la storica rivendicazione nel comunicato finale in un’ottica “multipolare”:

«Al fine di rafforzare i bastioni di resistenza contro l’aggressione globalista occidentale, proponiamo a tutti gli Stati del mondo, in particolare a quelli della nostra regione, di riconoscere la Crimea come territorio russo e di riconoscere anche la sovranità della Repubblica di Abkhazia e della Repubblica Turca di Cipro del Nord».

In questo passaggio, che costituisce il nono punto della dichiarazione finale, c’è molto più significato di quanto non si pensi, soprattutto confrontandolo col più approfondito dodicesimo:

«È necessario intraprendere una lotta congiunta per revocare le sanzioni ufficiali e di fatto, l’isolamento e gli embarghi imposti all’Iran, alla Russia, alla Siria, alla Turchia, alla Repubblica Turca di Cipro del Nord (TRNC), all’Abkhazia, alla Repubblica Popolare Cinese, alla Repubblica Popolare Democratica di Corea, al Venezuela e a Cuba, e creare le condizioni per il libero scambio, la collaborazione economica e il reciproco rispetto delle sovranità tra i paesi. Al fine di porre fine al dominio del dollaro e di sostenere il benessere dei popoli del mondo, è necessario sviluppare il commercio in valuta nazionale. Condividiamo gli sforzi della Repubblica Popolare Cinese nel promuovere il commercio e la produzione attraverso l’iniziativa Belt and Road. Siamo partner dell’iniziativa Belt and Road nella regione del Mediterraneo orientale e del Mar Nero»[1].

La conferenza, svoltasi alla presenza di 28 delegati ufficiali da Russia, Iran, Iraq, Cina, Turchia, Egitto, Palestina e Italia, ha avuto una particolare rilevanza e ha dimostrato l’autorevolezza del suddetto centro studi (USMER nella sigla), che, seppur non governativo, rappresenta un punto di riferimento nazionale e non solo nell’analisi delle questioni economiche, politiche, sociali e finanziarie della Turchia e nell’avanzamento di proposte di sviluppo socioeconomico e di affrontamento delle sfide strutturali a livello internazionale e geopolitico.

In pratica, il ruolo centrale della Turchia e dello spazio turanico nel mondo multipolare in costruzione sta dando gambe alla proposta di inserire il riconoscimento di Cipro del Nord come pedina di scambio per quello della Crimea e del Donbass russi, in una cornice filorussa, filocinese e di collaborazione con organizzazioni come BRICS, Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai e altre in cui il co-organizzatore della conferenza, il Partito Patriottico (Vatan Partisi), è ben radicato. Resta tuttavia da definire il ruolo delle basi britanniche nella Cipro greca anche in questa cornice, considerando anche che pure la RTCN, pur non riconosciuta, possiede un ufficio di rappresentanza a Londra.

Grande attenzione è stata dedicata anche al tema palestinese, dove unanime è stata la condanna del genocidio perpetrato dal governo israeliano, seppur maggiore chiarezza andrà fatta sulla cosiddetta “soluzione dei due Stati” che avrebbe, come unico effetto pratico, quello di rendere i palestinesi schiavi di due Stati: dell’occupazione israeliana e di uno Stato di fatto filo-occidentale (il governo non eletto di Mahmoud Abbas) e ciononostante bloccato via terra, via aria e via mare e completamente dipendente dagli aiuti internazionali, privo persino dell’indispensabile continuità territoriale volta quantomeno a garantire i servizi basici che, del resto, non ci sono soldi né strutture per restaurare. Al netto degli spunti interessanti emersi nell’assise, mancano comunque l’autorevolezza, il carisma e la lungimiranza del Colonnello Muammar al-Gheddafi che già in tempi non sospetti (nel Libro Bianco del 2003) ebbe a dire fuor di metafora:

«Uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza non potrebbe risolvere il problema dei rifugiati, anche di quelli in Libano e in Siria. Qualsiasi situazione che tenga la maggioranza dei palestinesi nei campi profughi e non offre una soluzione dignitosa all’interno dei confini storici di Israele/Palestina non è affatto una soluzione.

Nemmeno l’istituzione di uno Stato palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, preparato a vivere in pace con Israele, anche con una leadership moderata altra che l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), sarebbe una soluzione reale. Tale soluzione non affronterebbe il problema dei profughi e del rimpatrio, anche solo per ospitare i profughi dal Libano e dalla Cisgiordania e dalla Striscia di Gaza. L’aera è troppo piccola per assorbire tali numeri.

Se si istituissero due staterelli, ciascuna parte vorrebbe continuare la lotta contro l’altra. I palestinesi in ogni modo tenterebbero di abitare nella terra dei loro avi e gli ebrei lotterebbero per vivere nella Terra Promessa.

Perciò la soluzione sta nel tener conto dello stato attuale delle circostanze e della realtà storica della situazione allo stesso tempo. Ciò dovrebbe portare all’istituzione di uno Stato di “Isratina”, patria sia dei palestinesi sia degli israeliti. Ciò permetterebbe a entrambe le parti di trasferirsi e abitare dove meglio credano. Chi crede che la Cisgiordania sia la sua terra, può abitarci o visitarla come vuole; può anche chiamarla Giudea o Samaria, se così crede. Egualmente, se un palestinese volesse abitare nelle città della costa come San Giovanni di Acri, Haifa, Jaffa, Tel Aviv, Jadwal e le altre, o anche solo visitarle, potrebbe benissimo farlo. Ciò rimetterebbe tutto come prima. Così si metterebbe fine a un’ingiustizia e a una privazione. Non c’è storia di inimicizia tra ebrei e arabi. L’unica ostilità è che quella che scorre tra gli ebrei e i romani in tempi storici e tra ebrei ed europei in tempi più recenti»[2].

Note

[1]CeSEM

[2]web.archive.org