Il servizio intitolato “La grande bugia – Eritrea andata e ritorno”, andato in onda lo scorso 15 luglio alle 23.15 su Rai Tre, è stato davvero una sana e gradita “boccata d’aria fresca” in un’epoca di forte e logorante appiattimento mediatico. Di Filippo Bovo per l’Opinione Pubblica.
Lo scorso 15 luglio su Rai Tre alle ore 23.15 è andato in onda un bel servizio a cura di Francesca Ronchin e Solomon Mebrahtu, dal titolo “La grande bugia – Eritrea andata e ritorno”. Come riporta la breve descrizione che l’accompagna nella pagina dedicata di Rai Play, da cui è possibile rivederlo online, il servizio “svela come, negli anni, il tema dell’immigrazione sia stato affrontato in chiave ideologica, legittimando falsificazioni della realtà che hanno messo a rischio la vita dei migranti e aggravato le fragilità del sistema di accoglienza”. Ne consigliamo a tutti la visione, anche perché ben di rado capita che il servizio pubblico, ottemperando al proprio dovere, davvero informi il cittadino con servizi tanto ben fatti e documentati; realizzarlo e mandarlo in onda non dev’esser stato tanto facile. In un’epoca di forte e logorante appiattimento mediatico (abbiamo già visto quali danni abbiano prodotto le vulgate a senso unico, istituzionalizzate, sui conflitti in Ucraina o in Medio Oriente, e così via) è stato davvero una sana e gradita “boccata d’aria fresca”.
Ora, come ben sapranno i lettori più affezionati, insieme a pochi altri altri paesi l’Eritrea condivide un sinistro e non proprio invidiabile privilegio: quello d’esser avversata da un vasto fronte neoliberale bipartisan che, dai liberali di destra a quelli di sinistra, radical chic per primi, tutti comunque sempre accomunati da un fideismo euroatlantista di stretta osservanza, la vede come quintessenza della perfetta “dittatura” da odiare. Le motivazioni sono tante, più volte spiegate in vari articoli del passato: fin dalla sua Indipendenza, conquistata col sangue e col diritto dopo una trentennale Guerra di Liberazione dal 1961 al 1991, il paese non ha mai voluto sottostare a determinati diktat tesi ad allinearla al resto delle nazioni africane, tutte sotto stretto controllo del neocolonialismo occidentale. Il governo del Fronte Popolare per la Democrazia e la Giustizia (PFDJ) guidato dal Presidente Isaias Afewerki ci tiene ad uno sviluppo autonomo, i cui lusinghieri risultati abbiamo più volte illustrato nei nostri articoli; e il PFDJ è erede diretto dell’EPLF (Fronte Popolare di Liberazione Eritreo) che ha guidato quella dura Guerra di Liberazione, vincendola. Quindi, niente FMI, niente NATO-AFRICOM, niente USAID, niente sette religiose teleguidate dalla NED, niente che potesse servire in maniera diretta o indiretta a stabilirvi un controllo dall’esterno, finalizzato ad annichilirne la sovranità. Gli eritrei avevano già visto, al momento della loro Indipendenza, cosa fosse successo in trent’anni a tutte le altre nazioni africane sottostate, quando per scelta, quando soprattutto per obbligo, a certe alleanze e “carità pelose”. Dopo un tanto chiaro e trentennale bilancio, non c’era bisogno di ripetere un cattivo esempio; oltretutto vanificando il sangue di quei Martiri che avevano fino ad allora lottato per liberare la propria terra.
Non soltanto ad un certo ordine internazionale a guida americana, affermatosi dopo la caduta dell’ordine a due blocchi, non piacquero quei rifiuti, ma men che meno poterono piacergli gli sviluppi successivi. Nella confinante Etiopia, che fino al 1991 aveva controllato l’Eritrea come sua 14esima provincia, s’era nel frattempo stabilito il governo del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray (TPLF) guidato da Meles Zenawi. Fino al 1997 i rapporti tra i due paesi, entrambi reduci dalla sanguinosa pagina del DERG di Menghistu Haile Mariam, erano apparsi complessivamente buoni. Ma in Etiopia quel governo, contrariamente a quanto visto in Eritrea, era stato rapidamente risucchiato dalla tutela euroamericana, che l’aveva elevato a perfetto modello di cosa dovesse essere dal proprio punto di vista un paese africano: dipendenza cronica e massiccia dai prestiti e dagli aiuti umanitari occidentali, totale allineamento politico, economico e strategico, e via dicendo. Così l’Etiopia sotto il TPLF era rapidamente divenuta il buon esempio da imitare, e l’Eritrea il cattivo esempio da mettere all’indice agli occhi degli altri africani e del mondo intero. Si sa com’è: secondo questi ambienti neoliberali di marca euroatlantica, i paesi “come si deve”, “perbene”, dove si rispettano i “diritti umani”, sono quelli dove i loro agenti e le loro quinte colonne possono operare liberamente, facendo l’interesse dei loro padroni e non certo dei paesi che a seconda del ruolo dovrebbero aiutare o persino governare.
Così, nel 1998 scoppiò una dura guerra d’aggressione dell’Etiopia contro l’Eritrea, durata fino al 2000, quando i padrini occidentali intervennero diplomaticamente prima che fosse troppo tardi: per Zenawi e il suo esercito le cose si stavano mettendo davvero male. Con gli Accordi di Algeri i due paesi chiusero lo scontro militare e due anni dopo il verdetto dell’UNMEE (Missione delle Nazioni Unite in Etiopia ed Eritrea) diede ragione in tutto e per tutto all’Eritrea sulle zone di confine che invece l’Etiopia rivendicava per sé. E’ ovviamente un segreto di Pulcinella che la guerra del 1998 non fosse certo iniziata solo per qualche area di confine, come Badme, ma bensì con l’intento di Addis Abeba di riprendersi tutto il territorio della sua ex 14esima provincia: intento comunque sfumato, mandando al macello un sacco di povera gente (ma di quella, un po’ come nel caso degli ucraini usati dalla NATO per fare la guerra alla Russia, detto tra noi che gliene poteva davvero importare agli alti ambienti tra Washington, Londra e Bruxelles?).
Quella guerra ha tuttavia avuto i suoi strascichi, visto che il governo del TPLF, dapprima con Zenawi e poi con Haile Mariam Desalegn, spalleggiato dai suoi padrini occidentali, ha continuato a non applicare gli Accordi di Algeri che pure aveva firmato, fino alla sua caduta nel 2018. A quel punto è subentrato il Partito della Prosperità (PP) di Abiy Ahmed, che nel 2018 ha sottoscritto la pace con l’Eritrea normalizzando i suoi rapporti con Asmara e favorendo un processo d’integrazione e cooperazione nel Corno d’Africa, da sempre auspicato dal governo eritreo. Non tardò molto che Abiy Ahmed ebbe pure un Nobel per la Pace, a riprova di dove con certe lusinghe taluni ambienti occidentali lo volessero “ricollocare”. Poco dopo, nel 2020, nello Stato del Tigray, nel settentrione etiopico, al confine con l’Eritrea, il TPLF scatenò una guerra di secessione durata fino al 2022. Il governo etiopico rischiò la pelle, e chiese ed ottenne il cauto ma efficace aiuto dell’Eritrea, che peraltro era stata pure colpita da lanci di Scud da parte del TPLF in un tentativo d’internazionalizzare il conflitto. Nel 2022 il conflitto terminò con la resa del TPLF, e la firma degli Accordi di Pretoria dai quali tuttavia l’Eritrea venne esclusa: a mediarli erano infatti l’Unione Africana, con gli Stati Uniti nel ruolo di soddisfatti garanti insieme a qualche delegato dell’ONU e dell’IGAD (l’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo, ente che riunisce i paesi del Corno d’Africa senza mai troppo brillare, stante una sua certa compiacenza all’asse euroamericano).
Fatto sta che da allora Abiy Ahmed ha cominciato a comportarsi sempre più da “bravo ragazzo dell’Occidente”: gli Accordi di Pretoria ovviamente sono rimasti disattesi, anche perché con la fazione TPLF-G (guidata da Getachew Reda, ostile all’Eritrea e nelle grazie di Addis Abeba, oltre che di tutti gli altri) è scoppiato ben presto l’amore, mentre l’Etiopia cominciava a manifestare una crescente ostilità verso tutti i suoi vicini. Ne abbiamo già ampiamente parlato negli articoli precedenti, dalle minacce ad Eritrea, Gibuti e Somalia per uno sbocco sul mare al MoU col separatista e non riconosciuto Somaliland, a tacer poi del sostegno alle RSF (Forze di Supporto Rapido) di Dagalo Hemeti nella guerra civile in Sudan. Nel frattempo, oltre che dagli Stati Uniti, l’Etiopia appare sempre più eterodiretta dagli Emirati Arabi Uniti e da Israele per le loro non proprio commendevoli ambizioni nel Mar Rosso, nel Corno d’Africa e nella Valle del Nilo. Tutto mentre l’Etiopia frana sotto il peso del debito e dell’inflazione fuori controllo, dilaniata dalle insurrezioni dei FANO e dell’OLA che con armamenti leggeri costringono alla resa interi reparti dell’esercito armati di tutto punto, anche con armamento pesante. In un tanto vasto vortice di crisi, le minacce ai vicini sembrano un modo per l’Etiopia e il suo governo di scaricare all’esterno le crescenti contraddizioni interne e rimandare delle elezioni che sarebbero un suicidio politico, con la scusa di dover adottare lo stato d’emergenza. Non sorprende che l’altra fazione del TPLF, la TPLF-D di Debretsion Gebremichael, preoccupata da tutte queste turbolenze, abbia addirittura scelto contrariamente all’altra fazione di riappacificarsi con la vicina Eritrea: una novità di cui già in passato abbiamo fatto menzione.
Si può dunque ben capire perché faccia tanto comodo parlare d’emigrazione dall’Eritrea, speculandovi sopra il più possibile: additata fin dalla sua Indipendenza come “Stato canaglia”, l’Unione Europea ha avviato un’operazione “ponti d’oro” per chiunque, giungendovi dal Corno d’Africa, si fosse dichiarato eritreo. E, naturalmente, il conflitto del 1998-2000 e i successivi diciotto anni di “né guerra né pace” hanno ulteriormente intensificato quel giro, dando linfa ad interessi infiniti. Così è andata a finire che oltre il 70% di coloro che si dichiaravano eritrei, ottenendo immediato asilo, risultassero invece etiopici, ma anche somali o sudanesi: è una storia vecchia, che si sa da anni, e che i lettori più curiosi potranno trovare nei nostri più vecchi articoli. Per giunta, grazie a quel sistema a dir poco opaco, spacciandosi per eritrei sono spesso giunti in Europa (ma anche in altri paesi legati al medesimo quadro d’alleanze, dagli Stati Uniti al Canada ad Israele, e così via) individui poi rivelatisi, per le loro azioni criminali, come ad esempio gli assalti ai Festival delle varie Comunità Eritree, militanti della Brigata Nhamedu, una sorta di ramo armato sotto mentite spoglie del TPLF. Sono stati i veri eritrei a farne le spese, ma anche qualche poliziotto tedesco, olandese, e così via: arrestati, è così venuta fuori la loro vera identità, e a quel punto per loro stati dolori. Ma, come se non bastasse tutto ciò, proprio come raccontato dal servizio di Francesca Ronchin e Solomon Mebrahtu, quella percentuale minoritaria di veri e propri eritrei comunque emigrata può, con facilità e senza doversi vergognare con nessuno, rientrare nel proprio paese, per giunta ben contento di riaccoglierli.
Oltre che i nostri vecchi articoli, per appagare la vostra curiosità, possiamo poi consigliarvi delle interessanti e lucide pubblicazioni, come ad esempio “Inferno Immigrazione” di Daniel Wedi Korbaria o ancora “Ipocrisea” della stessa Ronchin, a cui peraltro sentiamo il dovere di porgere, in questa particolare occasione, tutta la nostra solidarietà per le francamente inopportune accuse che le sono state da taluni rivolte.