
Di Maurizio Vezzosi per krisis.info
Per capire cosa sta davvero accadendo in Libia, Krisis dà voce a Ibrahim Moussa, ex portavoce di Muammar Gheddafi e oggi attivo nella diaspora libica. Le sue parole rappresentano una lettura radicalmente diversa degli eventi del 2011 e delle loro conseguenze: dure verso l’intervento Nato, critiche nei confronti dell’Occidente e fortemente legate all’eredità politica della Jamahiriya. Per affrontare le questioni aperte su giustizia, sovranità e riconciliazione in Libia, Krisis ritine importante ascoltare anche questo punto di vista, spesso ignorato nei circuiti informativi tradizionali.
Ibrahim Moussa è stato il portavoce di Muammar Gheddafi durante la guerra condotta dalla Nato in Libia nel 2011. Attualmente è Segretario Esecutivo dell’African Legacy Foundation, un’organizzazione non governativa con sede a Johannesburg, in Sudafrica.
Quali sono, secondo lei, le ragioni che hanno portato all’attacco francese e statunitense alla Libia nel 2011 e all’uccisione di Muammar Gheddafi?
«Mi permetta di dirlo senza filtri diplomatici. L’attacco alla Libia del 2011 non aveva come scopo la protezione dei civili. È stato un attacco imperialista calcolato, guidato da Francia, Stati Uniti e Nato, per eliminare Muammar Gheddafi e annientare la sua visione per la liberazione africana. Nel 2011, Gheddafi si era posto alla guida di un progetto di trasformazione panafricana. Un progetto che stava gettando le basi per:
– Una moneta unica africana ancorata all’oro, oltre alla fine della nostra dipendenza dal dollaro statunitense e dal franco Cfa.
– Una Banca centrale africana, con sede ad Abuja (Nigeria), pensata per spezzare le catene del Fmi.
– Un’alleanza militare a livello continentale per difendere l’Africa dalle aggressioni straniere.
– Il controllo unito dell’Africa sulle nostre materie prime: petrolio, uranio, diamanti e altro ancora. La cosa più pericolosa per l’Occidente.
Questo progetto terrorizzò l’élite occidentale. La Francia temeva di perdere il controllo sull’Africa francofona. Gli Stati Uniti erano determinati a impedire all’Africa di sollevarsi dalla propria condizione. Così, fomentarono una ribellione, armarono milizie criminali, usarono Al Jazeera e la Cnn per demonizzare lo stato libico e lanciarono una guerra lampo della Nato sotto la falsa insegna dell’intervento umanitario. Ciò che volevano veramente era uccidere il sogno di Gheddafi, e lo hanno fatto con le bugie, i mercenari e le bombe».
Alcuni osservatori sottolineano come Gheddafi abbia represso brutalmente gli oppositori interni. Un esempio su tutti, il massacro dei prigionieri nel carcere di Abu Salim nel 1996.
«Questa è una delle menzogne più ripetute usate per demonizzare la Jamahiriya libica (la Libia popolare fondata da Gheddafi, ndr). Cerchiamo di essere chiari: il cosiddetto “massacro” di Abu Salim non è mai stato verificato in modo indipendente, nessuna prova credibile è mai stata prodotta in tribunale, ed è stato strumentalizzato da gruppi di opposizione finanziati dall’estero per giustificare la guerra della Nato. Nel 1996, la Libia affrontò una vera e propria guerra contro gruppi armati legati ad Al-Qaeda, molti anni prima dell’11 settembre. Questi gruppi attaccarono la polizia, bombardarono siti civili e ricevettero supporto diretto dall’estero. Abu Salim ospitava alcuni dei terroristi più pericolosi dell’epoca. Scoppiò una rivolta armata nelle carceri, con presa di ostaggi e coordinamento esterno. Lo Stato rispose. Ma si trattò di un “massacro” o di un’operazione antiterrorismo in uno Stato sovrano sotto attacco? Anche Human Rights Watch ha ammesso negli anni successivi che le cifre erano esagerate. I media occidentali hanno utilizzato numeri non verificati e li hanno trasformati in uno strumento di propaganda».
Come risponde a chi sostiene che la Jamahiriya, anziché essere un modello democratico, era un regime autoritario?
«L’affermazione che la Libia non fosse democratica proviene da una prospettiva occidentale che non riesce a comprendere la democrazia diretta del sistema della Jamahiriya. Avevamo Congressi del Popolo, Comitati Popolari, strutture di controllo rivoluzionario e meccanismi per il contributo diretto dei cittadini ad ogni livello. Gheddafi cedette formalmente il potere nel 1977. Quale altro leader al mondo ha volontariamente rimosso il suo nome dalla Costituzione e ha dato il potere al popolo? La Libia era perfetta? No. Ma abbiamo costruito un sistema al di fuori del liberalismo occidentale, fondato su una gestione partecipativa, dignità e indipendenza. Questo è ciò che non potevano accettare».
Altri analisti sostengono che l’attuale divisione del Paese sia dovuta anche a vecchie fratture tribali e clientelari create sotto Gheddafi. Cosa risponde a questa obiezione?
«Ciò non è solo falso, ma profondamente ipocrita. Sotto Muammar Gheddafi, la Libia era più unita che in qualsiasi altro momento della sua storia moderna. Le gerarchie tribali vennero abolite, ridistribuita la ricchezza derivante dal petrolio a tutti i cittadini, costruite infrastrutture in tutto il Paese, comprese regioni storicamente emarginate come il Fezzan, e creta un’identità pan-nazionale radicata nella sovranità, nell’arabismo e nell’unità africana. Sì, la Libia ha le sue tribù. Ma anche la Francia. Anche l’Italia. Il problema è come integrarle nella vita nazionale. Sotto la Jamahiriya, le tribù erano rispettate come unità sociali, ma non era mai loro permesso di dominare la politica nazionale. C’era una sola Bandiera verde, un’unica identità libica. Ciò che ha creato le divisioni che vediamo oggi non è il tribalismo, ma la distruzione dello Stato da parte della Nato e l’introduzione di signori della guerra sostenuti dall’estero che hanno sfruttato le faglie tribali, religiose ed etniche per ottenere il potere. L’Occidente ha frantumato l’autorità centrale e poi ha dato la colpa ai singoli pezzi. Sia chiaro: non è stato il tribalismo a distruggere la Libia. Sono state le bombe occidentali».
Il crollo della Libia ha creato problemi molto significativi per l’Europa mediterranea ed in particolare per l’Italia, soprattutto di natura migratoria. Come dovrebbe essere affrontato il problema?
«Voglio essere diretto: l’Europa sta raccogliendo quello che ha seminato. Prima del 2011, la Libia sotto Gheddafi era un pilastro della stabilità regionale. Abbiamo lavorato con i nostri vicini per gestire le migrazioni con dignità e giustizia, non con i campi di detenzione, ma investendo nello sviluppo africano. Gheddafi ha utilizzato la ricchezza petrolifera della Libia per creare posti di lavoro in tutta l’Africa e ridurre i fattori che spingono le persone a fuggire. L’Italia aveva un solido accordo con noi, basato sul rispetto reciproco. Ma la Nato ha scelto la guerra invece della pace. Ha smantellato lo Stato libico, e ora bande criminali e agenti stranieri controllano la costa. I confini europei sono collassati nel momento in cui l’Europa ha distrutto la Libia di Gheddafi. Quindi, come si può risolvere la crisi migratoria? Non con i muri o Frontex, ma ripristinando la sovranità libica, ricostruendo le nostre istituzioni e tornando ad un partenariato paritario con l’Africa, non un partenariato di bombe e sfruttamento».
A quasi 14 anni da quegli eventi, la Libia continua a essere instabile. Quali sono le condizioni per una reale riconciliazione nazionale? A questo proposito, il 20 giugno scorso si è svolto a Berlino un nuovo vertice tra i paesi maggiormente coinvolti: vi sono, a suo avviso, risultati tangibili?
«Questi vertici, Berlino, Parigi, Palermo, falliscono tutti per una semplice ragione: escludono il popolo libico. L’Occidente invita signori della guerra, funzionari corrotti e le loro milizie fantoccio, ignorando i milioni di persone che ancora sostengono la visione della Jamahiriya e vogliono sovranità, unità, dignità. Non si può costruire la pace invitando i clienti delle ambasciate straniere ed escludendo i figli e le figlie della vera resistenza. Una riconciliazione efficace deve iniziare con:
– La fine a tutte le interferenze straniere, in particolare alla presenza militare turca e occidentale.
– Lo smantellamento delle milizie ed il ripristino delle istituzioni nazionali, non da governi paralleli.
– L’invito, rivolto a tutti i libici, inclusi i sostenitori di Gheddafi, ossia la maggioranza della popolazione, ad un onesto dialogo nazionale. La cosa più importante.
Non cerchiamo vendetta. Cerchiamo giustizia e dignità. In mancanza di queste, non ci sarà pace».
Cosa può dire delle proteste che da mesi stanno interessando la Tripolitania?
«Le proteste a Tripoli e nella Libia occidentale sono il grido che viene dal cuore di un popolo distrutto. Per oltre un decennio il popolo libico ha sofferto in relazione al governo delle milizie, i blackout elettrici, la scarsità d’acqua, la corruzione e la totale perdita di sovranità. Quelle che avvengono non sono solo proteste economiche: sono proteste politiche. La gente sta dicendo “Basta!” ai governi sostenuti dall’estero che vivono negli alberghi mentre i libici vivono nell’oscurità. Stanno rifiutando la falsa democrazia imposta dagli accordi Onu e chiedendo il ritorno di una leadership nazionale al servizio della Libia, non dei capitali stranieri. Quello a cui stiamo assistendo è l’inizio di un risveglio. Le stesse persone che un tempo credevano alle bugie del 2011 ora si stanno rendendo conto di ciò che hanno perso e di chi glielo ha rubato».
A gennaio, il caso di Njeem Osama Al-Masri in Italia ha scatenato uno scandalo politico.
«Il caso di Njeem Osama Al-Masri ha messo a nudo i doppi standard dell’Europa. Un uomo presumibilmente coinvolto nelle attività di gruppi armati e forse in crimini di guerra durante il crollo della Libia è diventato una pedina tra il governo italiano e quello libico (di Tripoli)? Questa non è giustizia, è convenienza politica».
Il 7 luglio scorso, il ministro dell’Interno italiano Matteo Piantedosi è stato respinto a Bengasi. Cosa ne pensa?
«L’espulsione della delegazione italiana da Bengasi non è una sorpresa, ma la naturale conseguenza di anni di tradimenti. Nel 2011, l’Italia è stata tra i Paesi della Nato che hanno bombardato la Libia, ne hanno distrutto la sovranità e l’hanno gettata nel caos. Ora, oltre un decennio dopo, i funzionari italiani tornano non per pentirsi o solidarietà, ma con la stessa mentalità coloniale, cercando di controllare i flussi migratori e di esercitare influenza sul territorio libico. Condivido fermamente il rifiuto da parte libica di qualsiasi interferenza straniera, soprattutto nei confronti di coloro che hanno contribuito a smantellare la nostra nazione. Nessun funzionario europeo ha il diritto morale di camminare liberamente in Libia senza prima riconoscere e riparare l’immenso danno causato dai propri governi. La dignità della Libia non può essere ripristinata finché gli artefici della sua distruzione continuano a trattarla come una scacchiera per i loro giochi geopolitici. Non si tratta di Libia orientale o occidentale, si tratta di sovranità, memoria e giustizia. Noi ricordiamo. E chiediamo una Libia guidata dai libici, per i libici, senza l’ombra della Nato che aleggia sul nostro futuro. Se l’Italia vuole davvero la stabilità e la pace in Libia, dovrebbe smettere di giocare con i criminali di guerra quando ciò fa comodo ai suoi interessi, sanzionando e demonizzando coloro che vogliono la sovranità e l’unità in Libia. Questa ipocrisia ha tenuto la Libia intrappolata nei giochi stranieri per troppo tempo».
La Libia è oggi un’area di forte competizione geopolitica. Che ruolo gioca l’Italia?
«L’Italia ha avuto un’opportunità storica di svolgere un ruolo costruttivo in Libia. Nel periodo di Silvio Berlusconi avevamo firmato il Trattato di Amicizia, basato sul riconoscimento dei crimini coloniali, sulla cooperazione economica e sulla reciproca non aggressione. Quello è stato un raro momento di saggezza. Ma oggi l’Italia è diventata un partner minore nello schema coloniale della Nato. Sostiene una fazione piuttosto che un’altra, a seconda degli accordi sul gas e della pressione migratoria. Roma si è lasciata mettere da parte da Francia, Turchia ed Emirati Arabi Uniti, attori in lotta per ottenere fette di influenza in Libia. Se l’Italia vuole avere un ruolo reale in Libia, deve smettere di seguire ciecamente Washington e Bruxelles e iniziare a sostenere una vera riconciliazione guidata dalla Libia stessa, che includa tutte le forze politiche, soprattutto quelle legate alla resistenza dell’era Gheddafi. Questa è l’unica via per una vera pace, un vero partenariato ed un ritorno allo storico legame dell’Italia con il popolo libico. Che la verità sia nota: la Libia non è caduta. E finché l’Occidente non smetterà di cercare di gestire il nostro destino, continueremo a resistere. Perché lo spirito di Gheddafi non è morto a Sirte, vive in ogni libico che sogna una Libia africana, indipendente e unita».
Se si svolgessero in questo momento, chi pensa che vincerebbe le elezioni?
«Credo in un processo elettorale equo e trasparente. Se le elezioni in Libia si svolgessero in questo momento, non ho dubbi sul fatto che Saif al-Islam Gheddafi vincerebbe. Il suo sostegno è radicato nella profonda ammirazione popolare per suo padre e per la sua eredità politica. Ma, cosa ancora più importante, Saif al-Islam rappresenta un progetto nazionale chiaro e alternativo, che dà priorità alla sovranità, alla giustizia sociale e alla riconciliazione interna del paese. Le altre figure politiche che dominano la scena oggi sono profondamente corrotte o servono gli interessi di potenze straniere. Non rappresentano le speranze o la volontà del popolo libico. I loro progetti sono fallimentari, privi sia di visione che di legittimità. Saif al-Islam si distingue, non solo per quello che è, ma per ciò che rappresenta: un futuro in cui la Libia si governi con orgoglio e giustizia».
Saif al-Islam è tuttora ricercato dalla Corte penale internazionale. Come può rappresentare un’alternativa credibile per l’unità della Libia?
«La Corte penale internazionale? Si riferisce alla Corte che non ha mai incriminato George Bush per l’Irak, che non ha mai ritenuto Barack Obama o Nicolas Sarkozy responsabili della distruzione della Libia, che ha ignorato le torture, le fosse comuni e i mercati degli schiavi creati dopo il 2011? La Cpi è uno strumento politico dell’Occidente, utilizzato selettivamente per punire chi si oppone all’imperialismo. La sua credibilità in Africa è a pezzi. Quanto a Saif al-Islam Gheddafi, non ha bisogno della convalida dell’Aja. Ha qualcosa di più potente: il sostegno del popolo libico. Nonostante 13 anni di demonizzazione mediatica, esilio e tentato assassinio, Saif al-Islam rimane un simbolo di riconciliazione nazionale un ponte tra la resistenza verde e coloro che sono rimasti delusi dal caos della Libia post-Nato. Non ha mai imbracciato le armi per vendetta, non ha mai invocato spargimenti di sangue e continua a invocare unità, amnistia e una Libia sovrana a guida civile. Nessun altro possiede questa combinazione di visione, legittimità popolare, profondità storica e chiarezza politica. La vera domanda non è perché Saif sia ancora ricercato dalla Cpi, la vera domanda è perché coloro che hanno distrutto la Libia se ne vadano liberi a Parigi, Londra e Washington. Sarà la storia a rispondere a questa domanda».