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Di Emanuele Montei

Imparare dalle macerie

Nella storia, i socialisti hanno costantemente sognato e perseguito la Rivoluzione, dedicando a questo ideale la propria essenza, il proprio spirito e la propria esistenza. Eppure, tale obiettivo non è mai stato raggiunto entro i confini nazionali, principalmente a causa di una ricorrente inettitudine che ha segnato in modo persistente questa area politica. Prima di intraprendere qualsiasi azione, diventa quindi imprescindibile interrogarsi sulle cause dei fallimenti del passato.

Gli ostacoli storici che hanno frenato questo cammino possono, in linea generale, ricondursi a tre fattori ricorrenti: la frammentazione interna accompagnata da un astio fratricida, l’assenza di una visione politica dinamica e capace di adattarsi alle circostanze — spesso soffocata dal dogmatismo — e la mancanza di un’organizzazione solida ed efficace. In netto contrasto, la borghesia ha costantemente dimostrato una straordinaria capacità di adattamento, intelligenza strategica, audacia e organizzazione, qualità che le hanno assicurato il successo.

Il tempo stringe

Dopo una rapida analisi del passato, il compito che ci attende, in quanto socialisti e in quanto italiani, è quello di risvegliare e affinare le coscienze delle classi — sì, classi: perché l’evoluzione politica esiste — e della Nazione, affinché tutte le forze produttive possano operare in condizioni favorevoli e garantire prosperità nei decenni a venire.

Siamo italiani e socialisti: due valori inscindibili e indissolubili. Ogni volta che qualcuno afferma il contrario, provo un moto di incredulità. Leggo di rivoluzioni mondiali e cosmopolite e non posso che chiedermi: «Siamo forse impazziti?». Come si può pensare di gestire una simile prospettiva? In che modo può esistere coesione tra popoli separati da migliaia di chilometri, privi di abitudini e tradizioni comuni? Immaginare una ricetta unica valida per ogni nazione è una follia che la storia ha più volte smentito, dimostrando come l’identità condivisa sia il collante più potente di ogni epoca.

Gli esempi più eloquenti, a mio avviso, sono Cuba, che ha saputo utilizzare l’identità nazionale in chiave antiamericana per marcare con forza la propria indipendenza, e la Corea, che ha compiuto un passo ulteriore elaborando il Juche: la via coreana al socialismo.

La Rivoluzione non si è mai compiuta e rischia di non prendere forma neppure nella sua fase embrionale, quella delle agitazioni e delle lotte sociali. Il proletariato e la piccola borghesia non possiedono ancora una piena consapevolezza della propria condizione, spesso intrappolati in un clima di diffidenza e divisione che ricorda il maccartismo. Le forze armate, pur garantendo la difesa dell’ordine costituito, non comprendono di essere a loro volta vittime del sistema: i soldati combattono guerre per gli interessi di pochi, non per la Nazione; carabinieri e polizia reprimono uomini che condividono i loro stessi problemi. In uno Stato nostro, tali scenari sarebbero, nel primo caso, impensabili e, nel secondo, superflui: si combatterebbe per il popolo e il popolo avrebbe voce in capitolo.

Questa non è una svolta interclassista, ma una lettura realistica dell’evoluzione storica. La piccola proprietà è soltanto una vittima del mercato, che la schiaccia impedendole di prosperare; in un sistema diverso, avrebbe rappresentanti in grado di indicare le reali necessità per migliorare la propria condizione. Le forze armate, pur essendo per definizione al servizio del potere, restano un elemento essenziale per la difesa della Nazione: occorre soltanto offrir loro la giusta guida.

La razionalità e il buonsenso porterebbero a pensare che, prima di agire, sia necessario studiare. Ma la realtà, onnipresente e ineludibile, impone una conclusione diversa: la formula per vincere è azione e pensiero, e non il contrario. Oggi le anime lavoratrici sono spente, deluse e stanche; non hanno, almeno per ora, bisogno di lezioni sul plusvalore, ma di ciò che Sorel definirebbe “teoria del mito”: una scintilla capace di riaccendere i cuori, di far intravedere una luce in fondo al tunnel, di far credere.

La cultura e la mentalità borghesi si fondano sulla negazione di quanto qui sostenuto: esse si basano non solo sul profitto, sul consumismo, sulla reazione e su un’esistenza confortevole e sterile, fatta di pantofole e conformismo, ma anche su una nuova forma di parassitismo. Non il parassitismo classico della borghesia che vive sul lavoro del proletariato, bensì quello del supercapitalismo, in cui la borghesia si inginocchia davanti allo Stato per implorare aiuto, rivelando la propria totale incapacità. I borghesi non comprendono che un simile sistema, a lungo andare, si autodistruggerà, e che con esso essi stessi precipiteranno nella rovina.

Per contrastare tali aberrazioni, la strategia deve mutare: occorre passare al pensiero. Non perché l’azione sia superata, ma perché, priva di una solida base teorica, rischierebbe di ridursi a un vuoto risentimento. Mai come ora sono necessarie cultura, etica e un forte senso critico. È indispensabile combattere anche con la penna, costruendo una contro-narrazione capace di opporsi alla produzione intellettuale borghese.

L’ultimo nodo riguarda i sindacati: organismi incapaci di organizzare uno sciopero degno di questo nome o un’occupazione produttiva che dimostri concretamente come i lavoratori possano vivere e prosperare senza padroni. Del resto, cosa aspettarsi da sindacati che, per la prima volta nella storia, non conoscono né l’azione né la teoria? Come possono definirsi tali? Sono semplici gruppi di uomini convinti di rappresentare i lavoratori, ma che, in realtà, tutelano soltanto i propri interessi. La riforma sindacale deve essere radicale: il loro compito dovrà essere quello di impedire che in Parlamento esistano categorie lavorative prive di rappresentanza, e non di perpetuare la finta difesa con cui si riempiono la bocca.

«Non v’è più bellezza, se non nella lotta.» Così si apre il punto sette del Manifesto del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti. Egli lo concepiva in una prospettiva artistica e guerrafondaia; io, invece, ne accolgo lo spirito per farne un principio nostro, estendendolo al piano politico, sociale e culturale. Dopo quasi centosedici anni, queste parole devono essere riscoperte più che mai, non soltanto perché la lotta sia un dovere, ma perché deve diventare un piacere: il piacere di cambiare le cose, di fare la storia, uniti. Una volta ampliato il concetto marinettiano, esso può evolversi ulteriormente:

«Non v’è più bellezza, se non nella Rivoluzione.»