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Di Andrea Falco Profili

Alcune precisazioni sul multipolarismo

La discussione sulla transizione verso un ordine multipolare, negli ultimi anni, è stata spesso appiattita in una narrativa semplicistica o addirittura romantica, come se si trattasse dell’avvento di una nuova età dell’oro o di una sorta di redenzione collettiva del mondo contro il “Grande Occidente”. Questa tendenza, soprattutto in certi ambienti contro-egemonici, porta a confondere l’analisi con la militanza e l’evoluzione sistemica con l’ideologia. La multipolarità, prima che una bandiera da sventolare o un’identità politica, è un processo oggettivo che sta prendendo forma per ragioni estremamente materiali: demografiche, economiche, industriali, sociali e perfino psicologiche.

Non si tratta di un ideale etico o morale: la transizione al multipolarismo non si giustifica per temi etici, morali o, peggio ancora, spirituali. Non sta avvenendo perché “giusta” o perché il “Sud globale” si è risvegliato con una coscienza etica superiore. Sta avvenendo perché l’ordine unipolare che ha retto gli ultimi trent’anni non è più in grado di sostenersi. Questo dato non ha nulla a che vedere con sogni rivoluzionari o rigetti esistenziali della modernità occidentale: ha a che vedere con i numeri, i grafici, le statistiche, gli indicatori macroeconomici e con una serie di cambiamenti strutturali interni ai vari attori internazionali coinvolti. Ed è per questo che, paradossalmente, torna utile il pensiero di Samuel Huntington, pur con tutti i limiti che vedremo. Il suo “scontro di civiltà” ha fatto versare fiumi di inchiostro e, soprattutto, è stato travisato in senso quasi apocalittico e morale. Huntington non descriveva un capriccio o una sorta di odio naturale tra culture, si limitava a individuare dati strutturali. Un paese giovane, con un ceto medio in espansione e un’industrializzazione crescente, sviluppa ambizioni. Vuole giocare un ruolo autonomo nel mondo, essere potenza. Questo valeva per la Germania della fine dell’Ottocento, valeva per il Giappone della prima metà del Novecento e vale oggi per India, Brasile, Iran e soprattutto Cina. Il punto è semplice e difficile da travisare: se la ricchezza media cresce, se le città si modernizzano e la popolazione è giovane e intraprendente, l’industria nazionale comincia a competere e allora nasce inevitabilmente una volontà di potenza.

Oggi questo processo non si verifica più solo nel “giardino occidentale”. Anzi, proprio lì si registra una crisi inversa. L’Europa e gli Stati Uniti stanno vivendo una stagnazione industriale, una crisi demografica marcata e una crescente polarizzazione sociale che erode il ceto medio, schiacciato tra una élite transnazionale sempre più ricca e un proletariato dequalificato sempre più vasto. Non è quindi che gli altri si espandano perché “odiano l’Occidente”: è l’Occidente che non ha più la capacità materiale a contenere l’espansione altrui. E quando il centro non ha più abbastanza energia per dominare la periferia, il mondo si ristruttura.

Huntington, però, non ci deve piacere troppo. La sua intuizione è valida, ma è tutt’altro che innocente. Huntington, sia chiaro, non ci piace, perché il suo pensiero è viziato da limiti ideologici profondi. Se da un lato è straordinariamente razionale nel teorizzare i meccanismi dei mutamenti globali, dall’altro è palesemente razionalizzante nell’indicarci da che parte stare. Il primo limite è la sua ossessione per lo scontro “Occidente contro Islam”. Huntington postula nell’Islam un’unità geopolitica, una sorta di blocco monolitico e coeso, che nei fatti non esiste. Il mondo islamico è forse il più diviso del pianeta: sunniti contro sciiti, arabi contro persiani, turchi contro arabi, monarchie del Golfo contro tutti gli altri. Con la tragica scomparsa degli ultimi esperimenti di nazionalismo panarabo e laicista, come quello Ba’athista in Siria, qualsiasi progetto di unità geopolitica regionale è rimandato a data da definirsi, forse per sempre. La sua è una profezia che si autoavvera solo se continuiamo a trattare l’Islam come un nemico unico, compattandolo artificialmente.

Il secondo limite, ancora più grave per noi, è l’Occidente che Huntington postula. Il suo “Occidente” è una costruzione che puzza di ideologia e di Guerra Fredda, una forzatura storica. È un Occidente che si limita all’Anglosfera e all’Europa occidentale come sua appendice strategica. Questa costruzione esclude sistematicamente, non proprio a caso, i paesi slavi dell’Europa dell’Est, relegandoli ad alterità pura, a una “civiltà ortodossa” separata, con la Russia come suo egemone. È una visione che serve a giustificare la NATO come confine di civiltà.

È qui che l’analisi strutturale si scontra con l’ideologia. Se la multipolarità è un processo inevitabile, un’altra cosa è infatti pensare la multipolarità come un nuovo ordine morale o ideologico intrinsecamente antioccidentale e antiliberale. Qui subentra il rischio enorme di trasformare un fenomeno strutturale e neutrale (il riequilibrio delle potenze) in un progetto politico totalizzante. È ciò che si nota, con una certa tristezza nei sopracitati ambienti controegemonici e contronarrativi, che oscillano tra entusiasmi quasi mistici e profonde depressioni quando l’ipotetico asse della resistenza irano-russo-cinese non rispetta pedissequamente le loro aspettative ideologiche. Si esaltano per Putin, si deprimono se la Cina tratta sui dazi con gli Stati Uniti, si confondono se l’Iran non agisce come vorrebbero o l’India attua strategie di multiallineamento tra Eurasia e Occidente. Questo è il segno evidente che, per alcuni, la multipolarità è già diventata una sorta di ideologia salvifica. Il problema è proprio questo: la multipolarità è un contenitore, non un contenuto. Se la multipolarità è un punto di partenza, allora possiamo orientarla verso ciò che desideriamo. E quel “ciò” cambia radicalmente a seconda di chi guarda: gli identitari che ci vedono la fine del globalismo e la possibilità di una disarticolazione dell’Europa dall’Anglosfera e la vera fine dell’Occidente come blocco politico unitario; i socialisti che ci vedono la crisi finale del capitalismo americano e del modello neoliberista del mercato globale, aprendo nuovi spiragli economici. Una persona, più saggia, potrebbe vederci entrambe le cose e metterle insieme, ma ognuno si prescriva ciò che preferisce.

Se invece la viviamo come un punto d’arrivo, rischiamo semplicemente di subirla, restando inerti e sprovvisti di una volontà nostra, di un nostro progetto e di accontentarci di guardare gli altri che giocano la partita. Da qui, tanti scenari sono possibili. Uno dei tanti, ma certamente il peggiore (poiché vista l’attuale classe dirigente europea, uno dei più realistici) è che l’Europa finisca per essere una sorta di “nuovo Sudamerica” degli Stati Uniti. Un Occidente che si regionalizza, sì, ma come cortile di casa della potenza egemone in declino. In questo scenario nessun polo “europeo” o “eurosiberiano” riesce ad emergere, e noi diventiamo oggetto della storia altrui. È fondamentale capire che nel multipolarismo non è garantita l’esistenza di alcun polo per diritto divino o storico. I poli vanno pensati, voluti e, soprattutto, costruiti. Si costruiscono con i trattati commerciali, gli scambi culturali, i partenariati industriali, le esercitazioni militari congiunte e, perché no, anche con l’istituzione di entità sovranazionali che ne cementino gli interessi. Ma la precondizione necessaria, quella senza la quale tutto il resto è inutile, è la vitalità. O abbiamo la volontà di essere qualcosa, o non siamo niente e niente resteremo.

Se si vuole evitare la regionalizzazione nella gabbia occidentale è necessario pensare e costruire attivamente un polo europeo. Chiaramente, non un polo europeo – come vorrebbero alcuni – in senso esclusivo, in contrapposizione alla Russia. Un polo europeo, capace di stare in piedi nel mondo multipolare, deve includere la Russia, che vi fa parte di diritto in quanto paese intrinsecamente europeo per storia, cultura e destino. Rivendicare l’appartenenza europea della Russia oggi è un’operazione necessaria. È necessaria per contrastare da un lato la russofobia becera e ignorante di alcuni, che vedrebbero nella Russia ancora un conglomerato di “orde asiatiche” aliene alla civiltà. Dall’altro lato, è necessaria per contrastare la narrazione opposta che però – curiosamente – viaggia sugli stessi identici binari di quella russofoba: quella narrazione (spesso promossa da certi ambienti russi o filorussi) che, rivendicando una presunta alterità assoluta dei russi all’Europa, ripiega in un rifiuto totale, in un eurasismo da fumetto che è castrante tanto per il continente europeo quanto per la Russia tutta, individuando – talvolta – nell’Europa una nemesi addirittura più grande degli Stati Uniti. Entrambe le narrazioni servono solo a chi vuole un’Europa debole e una Russia isolata.

Non si tratta, ovviamente, di alzarsi la mattina e proclamare il superstato. Si tratta di costruire il proprio polo gradualmente, lavorando per cerchi concentrici. Si deve partire da ciò che è vicino e possibile – rafforzando la sovranità nel Mediterraneo, ad esempio – per arrivare poi, perché no, a quella costruzione continentale che un tempo si diceva dovesse passare “da Dublino a Vladivostok”.

Per questo la domanda non è “Multipolarità sì o no?”, la domanda è “Multipolarità, bene. E noi cosa vogliamo diventare dentro di essa?”. Perché se rinunciamo a porci questa fatidica domanda, altri risponderanno per noi. E allora, come legge ineluttabile della storia, chi non costruisce sé stesso viene costruito da altri.

La sinergia Euro-Cinese: opportunità e numeri di una svolta possibile, da CeSEM

L’orizzonte del dibattito strategico europeo è ingombro di simulacri. Concetti come “autonomia strategica” o “sovranità europea” vengono ribaditi in maniera crescente, ma in maniera vuota e priva di una reale volontà di potenza. Questa inflazione semantica non è casuale: serve a mascherare un paradosso fondamentale. L’Europa parla di autonomia proprio nel momento in cui la sua subordinazione a un’agenda esterna, quella atlantista, raggiunge l’apice.

La retorica della “riduzione del rischio” (de-risking) nei confronti della Cina è il sintomo più evidente di questa afasia strategica. Non è un pensiero autonomo nato in seno alle classi dirigenti europee, ma l’interiorizzazione di una dottrina imposta dall’egemone d’oltreoceano, il cui obiettivo non è la sicurezza dell’Europa, ma il mantenimento del proprio primato globale. La vera scelta che il continente si trova ad affrontare, e che questa narrazione occulta, non è una sfumatura tattica nelle relazioni con Pechino, ma una decisione esistenziale tra il perpetuare un vassallaggio e il rivendicare un destino proprio. Il feticcio dell’alleanza atlantica, un tempo autogiustificata come garanzia di sicurezza nell’ordine bipolare, si è tramutato oltre ogni illusione nel principale ostacolo alla definizione di un interesse europeo. La relazione transatlantica non è mai stata un patto tra eguali, ma è ormai cristallina la sua dinamica di dominio strutturale. Il dominus americano persegue una strategia razionale e auto-interessata: impedire l’emergere di qualsiasi polo di potere – inclusa un’Europa economicamente robusta – che possa incrinare la sua egemonia.

Questa visione è espressa senza eufemismi da Donald Trump, che in più occasioni ha – forse profeticamente – segnalato una similarità tra Europei e Cinesi con disprezzo:

“The European Union is possibly as bad as China, just smaller. It’s terrible what they do to us.” (Luglio, 2018)

“You know, the EU is a mini — but not so mini — is a mini China” (Ottobre, 2024)

“European Union is in many ways nastier than China, okay?” (Maggio, 2025)

Le politiche economiche aggressive, le pressioni per la coercizione commerciale e l’imposizione di un regime di sanzioni che danneggia primariamente l’industria europea non sono incidenti di percorso. Si tratta della manifestazione coerente di una strategia di contenimento che non distingue tra avversari sistemici e alleati subordinati. L’Europa è percepita non come un partner, ma come un territorio da presidiare e una risorsa economica da sfruttare. A esempio di questa ostilità non ricambiata risaltano i dazi punitivi fino al 25% su settori chiave come l’acciaio e l’alluminio, atti di guerra economica che costano miliardi all’export europeo. Si esige che l’Europa dia fuoco alle sue relazioni commerciali con la Cina come prova di lealtà, minacciando che ogni diverso avvicinamento equivale a “tagliarsi la gola da sola” (Cit. Scott Bessent, Segretario al Tesoro degli Stati Uniti).

La lealtà europea, in questo quadro, assume i tratti di un masochismo strategico. Il continente accetta di indebolire la propria base industriale, di pagare prezzi energetici esorbitanti e di sacrificare i propri legami commerciali vitali in nome di una fedeltà non ricambiata. Questa sottomissione volontaria non è un calcolo strategico; è l’abitudine di un protettorato che ha dimenticato il linguaggio della sovranità.

Il masochismo come Politica

La dottrina del de-risking si rivela per ciò che è: un atto di autolesionismo dettato dall’esterno. È un tentativo di disaccoppiamento mascherato che ignora violentemente la realtà materiale. L’integrazione economica tra il cuore industriale europeo e la potenza produttiva cinese non è un “rischio” da mitigare; è la precondizione per la prosperità continentale, un’opportunità di tracciare un sentiero più vantaggioso. Parliamo di un interscambio commerciale che ha superato gli 850 miliardi di euro, un volume che eguaglia, e in molti anni supera, quello con gli Stati Uniti. Questa politica, imposta da un apparato burocratico allineato agli imperativi atlantisti, genera una schizofrenia interna. Mette la politica di Bruxelles in rotta di collisione con gli interessi vitali dei propri settori produttivi, in particolare quelli tedeschi, che vedono nella Cina non una minaccia, ma il loro principale mercato singolo e un partner indispensabile per l’innovazione. Questa frattura tra la “testa” politica e il “corpo” industriale condanna il continente all’incoerenza.

Inoltre, questa strategia suicida colpisce direttamente gli obiettivi che l’Europa dichiara di perseguire. Pretendere di guidare la transizione ecologica e, simultaneamente, dichiarare guerra commerciale al principale produttore mondiale di tecnologie verdi, da cui l’Europa importa oltre il 70% delle sue batterie e pannelli solari, è un paradosso insostenibile. È un’ipocrisia che indebolisce l’economia e ritarda gli obiettivi fissati per obbedire a un imperativo strategico che non è il proprio.

L’alternativa Eurasiatica

La più grande opportunità per l’Europa sarebbe invece un riallineamento strategico verso le rotte della massa eurasiatica. Un partenariato paritario con la Cina è la via più prospera per sfuggire alla tenaglia della stagnazione e dell’irrilevanza. Si tratta di legarsi a un’economia che proietta una crescita annua reale superiore al 5%, mentre l’orizzonte atlantico stagna sotto l’1% o scivola in recessione. Oltre il commercio, si tratta di una sinergia di civiltà mirata a legare la profondità tecnologica e la manifattura europea alla scala produttiva di un mercato che rappresenterà quasi 8.7 trilioni di dollari di opportunità di investimento nel prossimo decennio. Questa combinazione creerebbe un asse economico capace di definire gli standard globali del XXI secolo, dalla transizione energetica all’intelligenza artificiale, sottraendo il continente alla morsa dei monopoli tecnologici americani. Il rifiuto di questo potenziale, in favore ad una subalternità nell’ordine calante dell’Occidente, è una scelta che condanna il continente a un declino gestito. Relegando il proprio ruolo da soggetto a quello di oggetto della storia.

Questa nuova architettura di potere, di logistica e di civiltà non è un’utopia ma una realtà materiale che si sta già solidificando. La lunga parentesi storica del dominio marittimo anglosassone, che ha relegato l’Europa a penisola periferica, sta giungendo al termine. Stiamo assistendo al ritorno della logica tellurica, con un rinvigorimento economico del supercontinente eurasiatico. Le nuove vie della seta, i corridoi di trasporto terresti che stanno connettendo la Cina all’Europa, sono le arterie di un nuovo ordine. Queste rotte, che si dimostrano fino al 40% più veloci e al 30% più economiche dei tradizionali colli di bottiglia marittimi controllati da potenze esterne, stanno ridefinendo la geografia del commercio e della logistica.

Per gli europei, questa è l’opportunità di invertire il proprio destino. Possono scegliere di rimanere un avamposto isolato dell’impero marittimo americano, oppure possono cogliere la propria vocazione geografica e storica: diventare il terminale occidentale sovrano dell’Isola-Mondo eurasiatica. L’alternativa è radicale e sempre meno differibile. Continuare a seguire la via atlantista significa accettare un’eutanasia strategica, trasformandosi in una provincia irrilevante di un impero in declino.

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