Corridoni , tra la fine del ‘14 e l’inizio del ‘15, svolse una importante attività sia rivoluzionaria che propagandistica a favore dell’intervento, ma non dimenticò anche le rivendicazioni operaie e – difatti – guidò, a livello intellettuale e pratico, l’importante vertenza dei gasisti milanesi, dipendenti della francese “Union des Gaz”. In questo contesto rientra persino la tattica, propria dell’interventismo rivoluzionario, di tentare una mediazione con la Francia e il suo governo, al fine portare i proletari – futuri soldati – verso
simpatie filo-francesi, e spingere il governo all’entrata in guerra contro le potenze centrali. Nonostante gli alti e bassi che condizionarono questo sciopero, ai capi dell’interventismo milanese vollero rendersi «protagonisti di un’ambiziosa idea: dare vita ad un casus belli con l’Austria».


Corridoni non esitò, e il 12 febbraio (1915) partecipò ad un’iniziativa volta a generare delle frizioni tra Austria ed Italia al confine, per spingere l’Italia nel conflitto contro le “potenze reazionarie e semi-feudali”. Tuttavia, fu arrestato per una vecchia imputazione, e in carcere diede vita al celeberrimo “Sindacalismo e Repubblica” (che trovate in edizione integrale in Pubblicazioni), tramite il quale pose su carta i suoi
precetti ideologici. Uscì dal carcere – tramite sconto di pena ed amnistia – il 30 aprile, pronto a condurre la campagna per l’entrata in guerra. Le piazze tornarono sue, e il suo grido era pronto a guidare la protesta per far uscire l’Italia dal torpore politico e morale, poiché fu «per avere un’Italia più forte che Corridoni spinse il suo popolo all’immane conflitto – come un generale scaglia le sue truppe in un ultimo disperato tentativo di conquista del baluardo nemico onde rigenerarlo attraverso la
grande prova del fuoco e del sacrificio».


Il 14 maggio si diffuse la possibilità di un ritorno di Giolitti al governo, che avrebbe – perciò – impedito all’Italia di entrare in guerra a fianco dell’Intesa; Corridoni, pertanto, indì un comizio a Milano, pronunciandosi – invece – favorevole al rientro di Sonnino e Salandra al Governo, che avrebbero portato – come poi accadde – l’Italia in guerra. Alla manifestazione il suo spirito si fece sentire, e annunziò che «Quel che urge riaffemare verbalmente oggi e tradurlo in atto domani, è la insurrezione di tutti gli spiriti e di tutte le energie contro il minacciato ritorno di Giolitti al potere». In quella stessa orazione, con un tono ilare e scherzoso, lanciò una invettiva al deceduto Partito Socialista, con queste parole: «Lasciatemi esprimere – aggiunge poi – tutto il mio profondo cordoglio per la bancarotta di un partito che è ormai
cadavere. Alludo al socialista. Un altro cadavere è la Camera del Lavoro. Una deliberazione si impone per l’igiene pubblica (viva ilarità). Il partito socialista e la Camera del Lavoro hanno firmato oggi il loro decesso: non risorgeranno più».
Sonnino e Salandra, alla fine, furono confermati il giorno successivo, e l’Italia il 24 maggio – una giornata che è, oggidì, fin troppo dimenticata, o talvolta calunniata – entrò in guerra, ed iniziò l’ora fatale.
Subito pensò all’arruolamento, e difatti fece domanda, ma fu respinto con “non idoneo”; ma non si fermò (ed era impossibile che potesse sottrarsi – data la sua sincera lealtà – ad un destino verso il quale correva e voleva correre, per consacrare la sua lotta), e insistentemente fece richiesta, fino a quando, grazie ad
un dottore, riuscì ad arruolarsi con lo status di “volontario”, e a farsi spedire al fronte. In quanto volontario, come i compagni che lo avevano seguito, fu agganciato al 32° Reggimento Fanteria,
stanziato – però – sulle retrovie.

Nonostante l’arruolamento, Corridoni e i suoi seguaci vennero visti con grande diffidenza da
commilitoni e gerarchie militari, poiché erano gli interventisti, ovvero coloro che avevano voluto la guerra, incolpati – in quanto tali – della situazione in cui si trovava l’intera Italia ed in special modo il suo Esercito. Ma, messa da parte l’indignazione, Corridoni non voleva rimanere nelle retrovie, ma anzi, andare a
combattere in prima linea – cosa che, invece, il 32° era impossibilitato a fare, perché reduce da una grave decimazione a seguito di una battaglia contro gli austriaci. Di giorno, però, tentò di dirigersi verso la prima linea, senza che qualcuno lo sapesse, e la notte adempì ad un compito assegnato, ma una volta ritornato, fu arrestato. E così lui stesso descrisse una parte degli avvenimenti: «Il colonnello, malgrado le nostre insistenze, non ha voluto mandarci a combattere e noi l’altra mattina, senza dir niente a nessuno, ci siamo andati da soli. Dirigendoci verso la prima linea abbiamo incontrato un caporale nostra amico il quale fece il possibile per tenerci nascosti fra gli uomini della sua squadra. Poichè nella notte una pattuglia doveva essere mandata a far saltare i reticolati, chiedemmo al caporale di fare in modo che il suo capitano mandasse la squadra. Ciò gli fu concesso ed egli per accontentarci passò a noi l’ordine ricevuto. Uscimmo di notte, portammo a termine la nostra piccola impresa e tornammo al posto di partenza. Intanto fra i soldati di quella compagnia si era sparsa la voce della nostra presenza. Fummo chiamati dal capitano che dopo aver elogiato il nostro lavoro, non potendoci arbitrariamente trattenere nella sua compagnia ci fece accompagnare con una lettera attestante il lodevole comportamento nella temeraria faccenda».


Tuttavia, una volta rientrati furono messi alle strette ed accusati di diserzione, e pochi giorni dopo condotti via per farsi giudicare dinanzi il Generale Giuseppe Cianci, che in Romagna aveva represso gli scioperanti durante la “Settimana Rossa”, cosa che destò non poche preoccupazioni per i giudicati, che erano socialisti fino al midollo.
Inaspettatamente lui «non solo fece liberare i presunti colpevoli, ma addirittura li abbracciò e li baciò». Alcuni dì successivi, i volenterosi furono inviati al 142°, raggiungendo – come desideravano – il fronte. Il 12 settembre, dal campo, inviò una lettera alla sua amante Luisa Pepi, esprimendo il suo disprezzo per la guerra in sé, non dimenticandosi – e mai lo fece – dei sacrosanti doveri ai quali doveva adempiere, e di cosa significasse questa guerra, e per quale motivo doveva essere combattuta (o, per meglio dire, che cosa avrebbe potuto innestare): «[…] Perché se per un uomo di comune, di media e di mediocre sensibilità la guerra è cosa atroce, per chi ha alto sentire ed ha il cuore educato a compassionare ogni umana sventura, la guerra è la cosa più orrenda che perversa mente di malefico genio possa
immaginare. Ebbene io debbo viverla la guerra; io, per mia predicazione dello scorso maggio, ho doveri superiori ad ogni altro, e la mia missione vuole ch’io impietri il mio cuore, che vigili i miei sentimenti, domini ogni mia debolezza, comprima ogni repulsione, per essere sempre pronto a dire agli altri la parola che rinfranchi, la invettiva che inciti, la calda esortazione che mantenga tutti sulla via aspra e difficile del doloroso, ma santo dovere».


Il 18 ottobre iniziò la III “Battaglia dell’Isonzo”, offensiva tramite la quale l’esercito doveva conquistare la posizione austriaca denominata “Trincea delle Frasche” e Corridoni aveva una salute malferma, ma ciononostante egli partì, con fierezza e sorriso, verso quello che sarà il suo ultimo assalto. Dopo un inizio
piuttosto difficile, e un proseguimento altrettanto doloroso per tutto l’esercito, Corridoni, prendendo parte ad un attacco disperato verso la posizione, cadde fulminato dal fuoco austriaco
gridando “Vittoria! Viva l’Italia!” il 23 ottobre del 1915 – sublimando, con la sua morte al fronte, l’esperienza di vita rivoluzionaria, nella speranza che si accendesse la scintilla, che come purtroppo sappiamo non scoppiò, di una rivoluzione proletaria spinta dal moto del conflitto.

Ed è una speranza con cui moltissimi volontari socialisti nel conflitto, trovarono la morte nel fango delle trincee. Questa eterna dualità sulla prima guerra mondiale è destinata, sia poco tempo dopo che molto, a frazionare e logorare il fronte socialista, cosa che porterà soprattutto in Italia i socialisti a farsi scappare occasioni di rivalsa come quella degli Arditi del Popolo, per paura di venire porre sullo stesso piano il nazionalismo dei reduci con la questione di classe.

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