Di Fabian

Il movimento comunista italiano non ha mai fatto seriamente, e interamente, i conti con la propria
storia: la fine del PCI con la svolta della Bolognina ha aperto la strada ad un numero interminabile
di organizzazioni pronte a rifarsi in maniera più o meno ortodossa alla prassi marxista-leninista,
talvolta tentando di privarla delle deformazioni subite dalla sciagurata dirigenza togliattiana prima e
berlingueriana poi, ma altre volte non ripudiando mai la prassi capitolazionista della dirigenza
socialdemocratica che, in maniera cosciente o meno, non volle mai incanalare l’odio delle masse nei
confronti del capitale verso un’esperienza veramente rivoluzionaria e non vagamente riformista.
Il moderno centro-sinistra è in realtà figlio degenere del vecchio PCI: la lotta implacabile che la
borghesia conduce contro il proletariato è una lotta che procede per gradi, che tenta di disarmare la
classe lavoratrice in maniera subdola e senza mai provocare lo scontro frontale.
In Unione Sovietica bisognava prima di tutto disarmare Stalin utilizzando l’autorità di Lenin,
raccontando alle masse che era necessario un ritorno “al vero leninismo”. Poi, venne il turno di
Lenin: e a quel punto non c’era veramente più nulla che giustificasse il mantenimento del regime
socialista. La storia del comunismo era la storia della brutalità del leninismo, raggiunta nella sua
massima espressione dalla brutalità dello “stalinismo”. La dittatura del proletariato era un progetto
superato, per questo era necessario vendere anima e corpo alla dittatura della borghesia: più umana,
più democratica, più “socialista”.
In Italia il primo colpo venne sferrato contro la teoria rivoluzionaria: la rivoluzione è una “cosa
grande e tremenda”, a cosa serve spezzare il dominio della borghesia quando è possibile integrarsi
nel dominio borghese al fine di concedere qualche microscopica concessione al proletariato? A cosa
serve la rivoluzione quando abbiamo la nostra Costituzione, fondamento giuridico del nostro
“socialismo”?
Il colpo successivo, di grazia, venne dato dai successori del Partito Comunista, dal Partito
Democratico e affini: non si tratta più di riformare il capitalismo, si tratta di collaborare con la
borghesia per opprimere il proletariato.
Ancora qualcuno oggi, che si proclama “comunista” o “socialista”, vorrebbe far tornare in voga il
mito “costituzionalista”, la parola d’ordine del “ritorno alla Costituzione”: la storia ha già
ampiamente dimostrato a cosa conducono queste stupide considerazioni.
Riportiamo in seguito una riflessione tratta da “l’Eurocomunismo è anticomunismo” di Enver
Hoxha, leader dell’Albania socialista, sul mito costituzionalista e il tradimento della dirigenza
comunista italiana, una riflessione ancora estremamente attuale, della quale evidenzierò i passaggi
cruciali.


La Costituzione dello Stato borghese, base del «socialismo»
togliattiano [Enver Hoxha, da l’Eurocomunismo è anticomunismo]

Parlando della «terza via» che costituisce la nuova strategia del revisionismo eurocomunista,
Berlinguer nel suo rapporto «Per il socialismo nella pace e nella democrazia…», tenuto al 15°
Congresso del PCI, chiarisce in modo più completo che cosa significa per lui e per i suoi compagni
questa terza via. «Si tratta, egli dice, di un’espressione che ha avuto fortuna… che abbiamo finito
per accogliere… Abbiamo prima avuto l’esperienza della II Internazionale: La prima fase della lotta
del movimento operaio per uscire dal capitalismo… Ma quest’esperienza… finì col cedere di fronte
alla prima guerra mondiale ed ai nazionalismi. La seconda fase si apre, prosegue Berlinguer, con la
rivoluzione russa d’Ottobre…». Ma anche per questo, secondo lui, bisogna fare una nota critica alla
storia e alla realtà dell’Unione Sovietica, poiché neppure quest’esperienza è valida. Risulta quindi
che la terza fase sarebbe cominciata ora con l’eurocomunismo. Compito del movimento operaio
dell’Europa Occidentale, dichiara Berlinguer, è di «trovare nuove vie di progresso verso il
socialismo e di costruzione del socialismo». La via per giungere a questa «società», secondo i
revisionisti italiani, è «la linea stabilita dalla Costituzione repubblicana per incamminare
l’Italia sulla via della sua trasformazione in una società socialista basata sulla democrazia
politica»
.
I revisionisti francesi, invece, non possono presentare la Costituzione di de Gaulle come base del
loro socialismo, per il fatto che non solo non hanno preso parte alla sua elaborazione, ma hanno per
giunta votato contro ; non la menzionano, ma praticamente non la negano. I revisionisti italiani
hanno da tempo elaborato l’idea del conseguimento del «socialismo» attraverso la Costituzione
borghese. Sin dal 1944 Togliatti nei suoi discorsi dichiarava che i tempi erano cambiati, era
cambiata anche la classe operaia, erano cambiate anche le vie per la presa del potere. Con ciò egli
intendeva dire che «era finito il tempo delle rivoluzioni ed era giunto quello delle evoluzioni», che
il «potere si poteva conquistare unicamente seguendo la via delle riforme, la via parlamentare
tramite il voto». In seguito alla riunione del CC del PC Italiano del 28 giugno 1956, subito dopo il
20° Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Togliatti diceva che «bisogna
prevedere un progresso socialista che si sviluppi proprio sul terreno stabilito e previsto dalla
Costituzione e che è il terreno delle libertà democratiche e delle trasformazioni sociali
progressive
… Questa costituzione non è ancora una costituzione socialista, ma essendo essa
l’espressione di un vasto movimento unitario, rinnovatore, differisce profondamente dalle altre
costituzioni borghesi; essa rappresenta una base effettiva di sviluppo della società italiana sulla via
che porta al socialismo». Che la Costituzione italiana sia diversa, per esempio, dalla
costituzione del tempo della monarchia e del fascismo, che in essa figurino una serie di
princìpi democratici, questo è comprensibile, poiché questi princìpi sono stati imposti dalla
lotta della classe operaia e del popolo italiano contro il fascismo. Ma non è soltanto la
Costituzione italiana a contenere simili princìpi. Dopo la Seconda Guerra mondiale in tutti i
paesi capitalisti d’Europa la borghesia tentò in un modo o nell’altro di turlupinare la classe
operaia, concedendole alcuni diritti sulla carta e togliendoli poi nella pratica. Quello che
prevede la Costituzione italiana sono libertà e diritti formali che vengono giornalmente violati
dalla borghesia.
Vi si prevede per esempio una certa limitazione della proprietà privata, ma ciò non
ha impedito alla Fiat e alla Montedison di arricchirsi sempre più e ai loro operai di impoverirsi
sempre più. Nella costituzione è previsto il diritto al lavoro, ma ciò non impedisce né ai padroni
capitalisti né al loro Stato di gettare sul lastrico circa due milioni di operai. La Costituzione
garantisce una serie di diritti democratici, ma ciò non impedisce né allo Stato italiano, né all’arma
dei carabinieri, né alla polizia di agire quasi apertamente, basandosi sui diritti concessi loro dalla
Costituzione, per la messa a punto di quel meccanismo che è pronto ad instaurare un regime
fascista. I vari comandi fascisti, da quelli dell’estrema destra a quelli denominati «brigate rosse»
nonché i terroristi di Piazza Fontana trovano anch’essi la loro giustificazione nella Costituzione
italiana. Pensare, come fanno i togliattiani, che la borghesia italiana ha elaborato la sua ben nota
costituzione per condurre la società al socialismo, è un’assurdità pura e semplice. La Costituzione
italiana, come le altre leggi fondamentali nei paesi borghesi, sanziona il potere esclusivo politico,
legislativo e esecutivo della borghesia nel paese; essa sanziona il mantenimento della proprietà e del
suo potere al fine di sfruttare le masse lavoratrici. Detta costituzione conferisce basi legali agli
organi di repressione affinché questi restringano la libertà e la democrazia del popolo ed esercitino
la loro oppressione e il loro dominio su tutti e su tutto. Qualche «bella» parolina come libertà,
uguaglianza, fratellanza, democrazia, giustizia, ecc. può figurare da duecento anni nelle
costituzioni, ma essa nella pratica non sarà applicata neppure fra altre migliaia di anni se non
verranno rovesciate la borghesia capitalista ed insieme ad essa anche le sue costituzioni e le
sue leggi.
Per i revisionisti italiani la Costituzione in vigore è la loro bibbia e la borghesia non
poteva trovare avvocati migliori per difenderla e propagandisti più zelanti per reclamizzarla.

L’ardore con il quale i revisionisti italiani difendono la Costituzione del loro Stato capitalista,
dimostra che essi non possono concepire alcun altro sistema sociale all’infuori del sistema borghese
esistente, all’infuori delle sue istituzioni politiche, ideologiche, economiche, religiose e militari. Per
loro il socialismo e l’attuale Stato capitalista italiano sono la medesima cosa. L’opportunismo nel
quale sono nati e sono cresciuti, ha offuscato la vista ai leader del partito revisionista italiano ed ha
chiuso loro ogni orizzonte. I revisionisti italiani sono divenuti le guardie dell’ordine capitalista.
Questo ruolo essi lo presentano per giunta come una virtù, e ne fanno menzione anche nei loro
documenti. «…anche in questo trentennio, si dice nelle tesi del 15° Congresso del PCI, il partito
comunista ha seguito una linea di coerente difesa delle istituzioni democratiche (leggi: borghesi); di
organizzazione e sviluppo della vita democratica tra le masse dei lavoratori e dei cittadini, di lotte
per le libertà individuali e collettive, per il rispetto e l’attuazione della Costituzione. Tale politica il
PCI ha attuato attraverso la ricerca costante dell’unità col PSI, con le altre forze democratiche,
laiche e cattoliche, e pur nella lotta dell’opposizione, — di ogni possibile convergenza con la stessa
D.C., — allo scopo di evitare la rottura del quadro democratico costituzionale». Non si può parlare
più apertamente di cosi. Non si può dare una più evidente testimonianza di fedeltà servile alla
borghesia. «Evitare la rottura del quadro democratico costituzionale» significa evitare il
rovesciamento dell’ordine borghese esistente, evitare la rivoluzione, evitare il socialismo. Cosa
può chiedere di più la borghesia ai revisionisti? Sono già trascorsi 35 anni da quando la
borghesia italiana, i revisionisti, la chiesa ecc. stanno ingannando il popolo italiano, dicendogli
che la vita difficile che sta conducendo, la miseria in cui vive, il feroce sfruttamento, la
corruzione, il terrorismo e tutte le altre piaghe sociali che caratterizzano l’Italia, sono
conseguenza della «mancata attuazione coerente della Costituzione». Ma la situazione in Italia
è stata e rimane miserabile, non per la mancata attuazione della Costituzione, ma a causa del
sistema che essa difende. Il presente è il risultato di tutto lo sviluppo dell’Italia nel
dopoguerra.
L’Italia che ha conosciuto i mali del regime monarchico dei Savoia, che ha sofferto gli
orrori del regime fascista, che ha conosciuto la povertà e la degenerazione morale e politica
cagionati da questo regime, che ha subito le devastazioni della Seconda Guerra mondiale, è uscita
da questa guerra rovinata economicamente e si è immersa in una profonda crisi politica, morale e
sociale che perdura ancora oggi. Alla fine della guerra l’Italia si trasformò in un caos, ma anche in
un circo, dove il ruolo degli acrobati e dei clown veniva interpretato dai nuovi gerarchi, coperti col
manto dei partiti ricostituiti sotto nomi «rinomati»: socialista, socialdemocratico, democristiano,
liberale, comunista ecc. Chi si faceva passare per continuatore di Gramsci, chi di Don Sturzo, chi di
Croce e chi di Mazzini. Dal paese del silenzio e della bocca chiusa che era al tempo del fascismo,
l’Italia si trasformò nel paese tradizionale del rumore assordante. Se il capitale americano ha
messo un piede in diversi paesi d’Europa, in Italia ve li ha messi tutti e due. E ciò è avvenuto
perché la borghesia di questo paese è la più degenerata, la più cosmopolita, la più corrotta
sotto ogni aspetto, insomma, una borghesia senza patria. I democristiani hanno avuto e hanno
sempre nelle mani le redini dell’Italia. Anche gli altri partiti borghesi chiedono di avere la loro
parte in questo bazar, dove ogni cosa si vende all’ingrosso e al minuto, persino l’Italia.

Espressione di questa lotta per il potere, della concorrenza e della rivalità fra i partiti sono gli
innumerevoli e frequenti cambiamenti di governo. Cambiamenti si fanno, ma il perno rimane
sempre il partito democristiano, che si fa la parte del leone. I democristiani hanno dato prova di
essere agili equilibristi nella formazione dei governi, concedendo a piccole dosi qualcosa anche
ai loro rivali e dando nel contempo l’impressione di essere e di non essere incontrastati
padroni del paese. A tal fine essi portano alla ribalta ora il «centrosinistra», ora il
«centrodestra», ora combinano un governo «monocolore», ora «bicolore».
Ma tutto ciò non è
che un’illusione di cui si servono per mostrare che starebbero trovando una soluzione al caos,
alla miseria, alla fame, alla disoccupazione, alla terribile crisi generale che sta travagliando il
paese. Attualmente in Italia stanno germogliando tutti i crimini.
Il neofascismo si è organizzato in
partito parlamentare e dispone di innumerevoli gruppi di terroristi e di squadristi, che gli italiani
chiamano gli «agnelli» del segretario generale del partito fascista, Almirante. La mafia criminale ha
affondato gli artigli ovunque e il crimine, i furti, gli assassini, i sequestri di persona sono stati
elevati a industria moderna. Nessun italiano è sicuro del domani. L’esercito, l’arma dei
Carabinieri e gli organi della polizia segreta sono stati gonfiati al punto da soffocare il paese. I
loro effettivi sono stati gonfiati per difendere, a loro dire, il popolo e l’«ordine democratico»
dai «brigatisti» di estrema sinistra e di estrema destra. Ma la verità è ben diversa, poiché
senza questi organi non si possono difendere i ladri e gli assassini di grosso calibro che
occupano seggi al parlamento o si trovano negli stati maggiori dell’esercito, della polizia ecc.

Nel medesimo tempo l’Italia è indebitata fino al collo, mentre la sua moneta è la più debole rispetto
a tutte le monete dei paesi dell’Europa Occidentale. Essa viene chiamata oggi il «malato» dei Nove.
Nessuno ha fiducia in quest’Italia con il suo marcio regime, in quest’Italia che può evolversi in una
direzione pericolosa non solo per il popolo italiano, ma anche per i suoi vicini. I diversi governi
italiani, senza parlare del periodo del fascismo mussoliniano, hanno tenuto generalmente
atteggiamenti non amichevoli, aperti o nascosti, verso l’Albania. La reazione albanese traditrice che
scappò via su navi inglesi, si radunò in Italia, dove fu organizzata e addestrata dai vari governi del
dopoguerra di questo paese, dal nemico eterno dell’Albania, il Vaticano, come pure dagli angloamericani, al fine di agire contro la nuova Albania. Nei primi anni successivi alla Liberazione, il
nostro popolo ha dovuto condurre un’aspra lotta contro gli agenti eversivi che venivano inviati
dall’Italia. Si sa bene quale fu la loro fine. Ma anche il destino degli altri non fu migliore. Una parte
dei fuorusciti albanesi traditori rimasero in Italia, altri se ne andarono in America, in Belgio, in
Inghilterra, nella Germania Federale e in parecchi altri paesi, secondo la destinazione loro assegnata
dai servizi imperialistici di spionaggio. I governi italiani, vedendo che i loro atti eversivi contro la
nuova Albania non avevano successo, cominciarono ad assumere una posizione politica
«menefreghista» verso il nostro paese. E’ vero che furono stabiliti rapporti diplomatici fra i due
paesi, ma gli altri rapporti sono rimasti sempre ad un livello molto basso. I governi italiani non
hanno mai espresso la volontà di sviluppare tali rapporti. Nessun governo italiano ha mai
pubblicamente condannato l’opera barbara di Mussolini contro l’Albania. Questi governi hanno
però avuto cura di esumare i resti dei soldati italiani uccisi dai nostri partigiani durante la Lotta di
Liberazione Nazionale e di riportarli in Italia, per consacrarli come «eroi che avevano combattuto
per la grandezza dell’Italia», e per render loro omaggio ogni anno. La stampa italiana, nella sua
maggior parte, raramente pubblica qualcosa di positivo sull’Albania. Essa si è distinta fra tutta la
stampa mondiale per un atteggiamento mirante a presentare sotto una falsa luce il nostro paese ed a
denigrarlo. Nemmeno i revisionisti italiani hanno mantenuto un atteggiamento diverso da quello
della stampa e dei governanti italiani. Nel 1939, i dirigenti del Partito Comunista Italiano
guardarono da lontano gli eserciti italiani che andavano a carpire la libertà ad un piccolo popolo
vicino. Essi non furono nemmeno all’altezza dei socialisti italiani, i quali condannarono
l’imperialismo del loro paese al tempo della Lotta di Vlora, nel 1920. I principali dirigenti del
Partito Comunista Italiano neppure dopo la guerra si sono degnati di venire in Albania, per
condannare i crimini del fascismo e per esprimere la loro solidarietà al popolo albanese, che aveva
tanto sofferto durante la guerra e si era battuto eroicamente contro il fascismo italiano. Il Partito
Comunista Italiano ha lottato e lotta per svuotare i suoi aderenti e il proletariato italiano dello
spirito rivoluzionario, per nutrire in essi l’idea di conciliazione di classe e di far scomparire in
loro l’idea della presa violenta del potere dalle mani dei capitalisti. Esso non è che un partito
socialdemocratico come gli altri, ma che è stato lasciato all’opposizione e non ammesso nel giro,
per aver aderito prima alla III Internazionale e poi perché la borghesia, a quanto pare, esige da esso
prove ancora maggiori.
Lo Stato borghese «democratico» italiano sovvenziona con miliardi di lire il
Partito Comunista Italiano, come anche tutti gli altri partiti parlamentari. Il partito revisionista, però,
si assicura altri consistenti introiti attraverso le società commerciali, oppure sovvenzioni per l’opera
di sensale che svolge. Esso ha la sua aristocrazia e la sua plebe. Gli aristocratici sono i deputati, i
senatori, i sindaci e i consiglieri comunali, ed anche i funzionari permanenti. Il 10° Congresso del
Partito Comunista Italiano, che si tenne nel 1962, procedette alla codificazione delle idee di
Togliatti, della linea socialdemocratica, dell’allontanamento aperto dal marxismo-leninismo.
Togliatti era un intellettuale riformista e tale rimase fino agli ultimi giorni della sua vita, fino al
«testamento di Yalta», in cui ribadiva il «policentrismo» e si esprimeva a favore del «pluralismo»
dei partiti nella presunta marcia verso il socialismo, «per la libertà di coscienza», «di parola», «dei
diritti dell’uomo» ecc. Ecco quale era la via del cosiddetto «socialismo italiano». Il 10° Congresso
presentò «La via italiana verso il socialismo» come una via originale, come un nuovo sviluppo del
marxismo, come un superamento degli insegnamenti della Rivoluzione d’Ottobre e di tutte le
esperienze delle precedenti rivoluzioni socialiste. In verità questa era la via delle «riforme di
struttura», la via revisionista, opportunista, adottata secondo le esigenze e la situazione del capitale
monopolista italiano. Secondo la «teoria» delle «riforme di struttura», si andrebbe verso il
socialismo attraverso le riforme graduali, che verrebbero strappate al capitale monopolistico in
modo pacifico. Queste riforme graduali sarebbero state attuate solo attraverso la via parlamentare,
con la forza del voto, indipendentemente dal fatto che i monopoli capitalistici avevano in mano nel
contempo le ricchezze del paese, le armi, la direzione del parlamento e dell’amministrazione.
Secondo loro le «riforme delle strutture sociali ed economiche», la cui realizzazione sarebbe
possibile nel quadro dello Stato borghese, «elimineranno lo sfruttamento e le diseguaglianze di
classe, e renderanno possibile… un graduale superamento della divisione fra governi e governati,
una piena liberazione dell’uomo e della società». I revisionisti italiani sono completamente slittati
sulle posizioni del tradeunionismo e della socialdemocrazia, che limitano la lotta degli operai alle
sole rivendicazioni economiche e democratiche, e pensano di poter eliminare le conseguenze
dell’ordine capitalista senza intaccarlo. Ma la storia ha provato che ciò è un’utopia, poiché gli effetti
non possono essere eliminati senza far scomparire le loro cause, che sono inerenti al sistema stesso
capitalista. L’aperto passaggio sulle posizioni della socialdemocrazia, ora viene accettato dagli
stessi capifila revisionisti italiani, e non senza un certo vanto per aver compiuto questo passo
«storico». All’ultimo congresso del Partito Comunista Italiano, l’ex presidente del parlamento
italiano e membro della direzione del partito, Ingrao, ha dichiarato che «noi abbiamo molto da
imparare dalla socialdemocrazia». Che i capifila del partito revisionista italiano siano ancora dei
novizi rispetto agli anziani professori socialdemocratici nella revisione del marxismo-leninismo e
nella lotta contra la rivoluzione, questo è vero. Ma essi possono essere paragonati a loro per
l’incontenibile zelo di servire incondizionatamente e con servilismo la borghesia. I revisionisti
italiani possono predicare notte e giorno, possono sgolarsi a forza di parlare su tutte le piazze e di
pregare in tutte le chiese che vi sono in Italia, ma mai e poi mai riusciranno a realizzare i loro sogni
riformisti di poter passare al socialismo tramite il parlamento, la Costituzione e lo stesso Stato
borghese. La continuazione della linea delle «riforme di struttura» di Togliatti è sfociata ora nel
«compromesso storico» con la borghesia, proclamato da Berlinguer. Questo slogan, con il quale la
direzione revisionista italiana si sta trastullando, è stato lanciato proprio nel momento in cui lo Stato
borghese capitalista italiano sta attraversando una crisi molto grave. Con il «compromesso storico»
il Partito Comunista Italiano ha offerto alla Democrazia Cristiana, rappresentante del grande
capitale e dell’alta gerarchia ecclesiastica, la sua collaborazione per farla uscire da questa situazione
e per salvare questo Stato. Il «compromesso storico» di Berlinguer è una continuazione dei vecchi
orientamenti del Partito Comunista Italiano, il quale, all’indomani della guerra, chiese la sua
partecipazione al potere borghese e l’unificazione con i socialisti di Nenni. Esso è la continuazione
del noto flirt con il presidente democristiano di quel tempo Alcide De Gasperi, è la mano tesa di
Togliatti e di Longo ai cattolici. Berlinguer ha trasformato questo orientamento da tattica in
strategia. Il «compromesso storico», proposto dal Partito Comunista Italiano, è la vecchia politica
liberale che all’Italia ha sempre calzato «comme un gant». Il «compromesso storico» di Berlinguer
fu un tentativo e una speranza nata sotto l’influenza degli eventi del Cile. I revisionisti italiani,
quando videro che il socialista Allende non potè rimanere al potere senza la collaborazione del
Partito Democristiano di Frei, pensarono che nemmeno loro potevano accedere e mantenersi al
potere senza il sostegno e la collaborazione dei democristiani. La paura dell’instaurazione del
fascismo con l’aiuto dell’imperialismo americano li spinse a ritirarsi e a fare notevoli concessioni
sia di principio che pratici, ad abbandonare anche quella posizione in un certo modo indipendente
che mantenevano sino allora, quando pensavano di poter ottenere la maggioranza al parlamento e
governare insieme ad una coalizione di sinistra. Sin d’allora, allo scopo di evitare un ripetersi degli
avvenimenti del Cile in Italia, essi accettarono di svolgere un ruolo secondario, il ruolo di
subordinazione, in una coalizione non più di sinistra, ma di destra, con i democristiani. Nel
momento in cui il Partito Comunista Italiano lanciò la parola d’ordine del «compromesso storico»,
si ebbe l’impressione che l’Italia si stesse trasformando in un paese industriale potente. In quel
periodo non solo la reazione, ma gli stessi «comunisti» italiani, consideravano il «compromesso
storico» come una «strategia» a lungo termine. Ma sopravvenne la crisi e il fascismo risorto diventò
più minaccioso; l’uso delle bombe, i casi di omicidio e di scomparsa di persone divennero fatti
correnti. Il «compromesso storico» cominciò a divenire più attuale e a sembrare più «ragionevole»
sia ad una parte della borghesia che ad una parte dei democristiani. Rappresentante di tale corrente
era anche Aldo Moro, ma egli fu liquidato, poiché i democristiani non erano e non sono ancora
pronti ad entrare in questo compromesso, a prescindere dalle disfatte subite alle elezioni.
Nell’attuale congiuntura di crisi, i democristiani hanno escogitato alcuni modi e alcune forme di
coordinamento delle loro azioni con i «comunisti» su certe questioni, sia a livello dei sindacati che a
livello dei partiti, ciò nonostante essi hanno paura anche di un partito comunista italiano «à l’eau du
rose». Accetterà il capitale monopolista italiano la mano che gli tende il Partito Comunista Italiano?
Esso chiede che i revisionisti sostengano il governo al parlamento, votino a favore del suo
programma e delle sue leggi, entrino nella «maggioranza parlamentare», nella «maggioranza
governativa», ma non nel governo, nel potere, nei centri dove si prendono decisioni politiche
relative alla direzione del paese. Gli Stati Uniti d’America si sono espressi contro la presenza dei
revisionisti europei nei governi dei paesi aderenti alla NATO. La borghesia italiana sta eseguendo
quest’ordine dei suoi padroni. Il Partito Comunista Italiano, ogni volta che si fanno elezioni
legislative, si trova sempre davanti ad un grande dilemma. Esso non sa come dovrà agire
qualora dovesse ottenere un numero maggiore di suffragi rispetto ai democristiani.
Berlinguer, impaurito, si attiene alla formula secondo cui in ogni caso bisogna costituire un
governo di larga partecipazione di tutti i partiti dell’«arco democratico», per attuare alcune
riforme, ma naturalmente nel quadro di una «democrazia pluralistica» e senza far uscire
l’Italia dalla NATO.
Perché Berlinguer prospetta le cose in questo senso? Perché questa è la linea
revisionista del Partito Comunista Italiano, che ha paura di assumersi responsabilità di fronte alla
crisi e al fallimento del sistema borghese che le riforme non sono in grado di risanare. D’altro
canto, il Partito Comunista Italiano teme anche le masse di operai e di lavoratori italiani che
nel caso di una vittoria di questo partito, chiederanno non più la collaborazione con il
padronato, ma la presa del potere. Il Partito Comunista Italiano non si augura né permetterà
mai una situazione simile. Ma nemmeno la borghesia monopolista americana e italiana lo
desidera, e farà tutto il possibile affinché una situazione simile non venga a crearsi.
Nel caso in
cui il Partito Comunista Italiano vincesse alle elezioni, in un primo tempo si potrebbe fare un
compromesso antistorico; questo «compromesso» sarà però effimero, tanto per calmare l’opinione
pubblica e poter dare un giro di vite. Il capitale non depone mai le armi, se non le vengono tolte
a viva forza. Il Partito Comunista Italiano non è di quei partiti che vanno alla rivoluzione.
Esso non è stato e non è per l’instaurazione di una società socialista in Italia, né oggi, né
domani, né mai.

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