In questo frangente, vennero fuori le doti da agitatore e trascinatore del giovane Tribuno, grazie alle quali acquisì una notevole importanza all’interno dell’ambiente sindacale milanese. Proprio attraverso uno sciopero (maggio-giugno) da lui stesso invocato e poi reso effettivo – purtroppo fallito -, quello dei gasisti milanesi che lavoravano per la “Union des Gaz” (Industria privata francese, con sede a Milano), si mise in mostra.


Sulle sue doti ebbe a dire Alceste De Ambris: «Confesso che non credevo che avrebbe potuto diventar mai un organizzatore. Propagandista ed agitatore, sì; organizzatore, no. M’accorsi dell’errore di questo giudizio quando nel 1911, potei seguire l’opera da lui svolta nello sciopero dei gasisti milanesi. Quel fanciullone ragionava ed agiva come un veterano dell’organizzazione. Anche ora sono convinto che pochissimi di quelli che vanno per la maggiore nel giudizio di tutti, avrebbero saputo condurre un
movimento così difficile con l’abilità ed il tatto di Corridoni.»


Il 1911 fu anche l’anno della famosa “guerra di Libia”, che scoppiò nel settembre, e che fu di notevole importanza non solo nella formulazione teorica corridoniana (congiuntamente a quella deambrisiana), ma di tutto il Sindacalismo Rivoluzionario. Vi fu, difatti, una spaccatura all’interno del movimento rivoluzionario – che tuttavia non ne inficiò l’ascesa nel campo sociale ma, anzi, fu un vero e proprio laboratorio d’idee per tutto il gruppo – tra coloro che si schierarono apertamente su posizioni “(proto)interventiste” e coloro che – come il Nostro e De Ambris – scorsero l’impossibilità da parte dell’Italia di portare avanti un conflitto coloniale.

In tal sede non ci occuperemo in maniera esaustiva del dibattito portato avanti
dagli “interventisti”, ma ci limiteremo a dire che il raggruppamento sindacalista intorno a “Pagine Libere” – dentro il quale si trovarono i varī Angelo Oliviero Olivetti, Paolo Orano, Arturo Labriola, Sergio Panunzio, Enrico Corradini, ecc. – maturò, in seno al valore spirituale del conflitto, una fusione con le posizioni del “Partito Nazionalista Italiano” , con cui entrarono in contatto – oltreché dal punto di vista ideologico – a livello giornalistico.

In tal senso, venne formandosi un autentico “nazionalismo sindacalista” , che poneva – da un lato – l’accento sul carattere suprematistico della stirpe (in virtù del nazionalismo) e – dall’altro – premeva affinché (questa volta, in virtù dell’ideologia sindacalista) si raggiungesse, per mezzo di
una classe proletaria volitiva e votata all’assalto (le famose “epoche imperialistiche” alle quali si confaceva A.O.Olivetti), il tanto invocato sciopero generale di natura soreliana, anelante la rivoluzione sociale. In tal senso, seppur con toni elevatamente sensazionalistici, ma sempre esemplificativi di quel contatto che
si ebbe allora, ebbe a scrivere proprio Olivetti – forse il rappresentato massimo di quella fusione: «Ora il sindacalismo come il nazionalismo riaffermano una originalità frammezzo all’onda irrompente della mediocrità universale: quello la originalità di una classe che tende a sprigionarsi ed a superare, questo amoroso di far rivivere il fatto ed il sentimento nazionale, inteso come originalità di una stirpe, come affermazione di una personalità collettiva, con caratteristiche note culturali, sentimentali, con un istinto proprio e differente».

E ancora: «Finalmente nazionalismo e sindacalismo hanno comuni il culto dell’eroico, che vogliono far rivivere in mezzo ad una società di borsisti e di droghieri. La nostra società muore per mancanza di
tragedia […]. Il nazionalismo e il sindacalismo sono le sole concezioni politiche del nostro tempo che agitano le profondità di un mito, quello invocando la supremazia della stirpe, questo lo sciopero
generale e la rivoluzione sociale. Nazionalismo e sindacalismo sono i soli che prendano sul serio la vita.»


Di tutt’altra posizione – meritevole di modesta attenzione – furono Filippo Corridoni ed Alceste De Ambris, baluardi dell’anti-imperialismo – a base coloniale – in occasione del conflitto libico. I due – che a differenza dei socialisti, presi dal torpore neutralisti, non criticarono la guerra invocando un
pacifismo acritico e grondante di abulia – videro acutamente l’Italia come Nazione impossibilitata ad intraprendere un conflitto coloniale, in quanto troppo arretrata rispetto a Francia, Inghilterra e Germania; ma il Nostro, non si limitò a questo, ma andò oltre, riportando in auge il suo anti-militarismo di classe,
tramite il quale voleva – a differenza della diserzione sistematica

che fossero proprio i proletari in divisa a fare propaganda nelle caserme, così da mettere in ridicolo e bloccare la borghesia che voleva servirsi di loro per le guerre esterne e le repressioni reazionarie interne. Paradigmatiche sono le parole del dell’Eroe – che, non ironicamente, sarà una delle personalità simbolo della svolta interventista di una gran parte del socialismo italiano: «La politica coloniale può essere permessa alla Francia, all’Inghilterra e al Belgio. Nazioni sviluppatissime e afflitte da congestione
finanziaria. Nazioni dove ogni risorsa naturale viene religiosamente sfruttata e dove le industrie sono arrivate ad un così alto grado di perfezione tecnica da sentirsi il diritto di dettar legge, con la sola
concorrenza, sui mercati mondiali; ma l’Italia, l’Italia che ha un’agricoltura arretratissima, che è tributaria in tutto di altre nazioni, che ha delle industrie così rachitiche, così misere e viventi una vita anemica da fior di serra e solo in grazia dell’alta protezione doganale, l’Italia non deve, non può darsi delle arie di
grandezza, non può fare la colonizzatrice, non può far delle guerre senza cader nel ridicolo prima, senza rovinarsi irrimediabilmente poi.»


Per il Nostro proseguì la lotta, e nuovi scioperi andarono nascendo, soprattutto a Milano e Bologna, e nel 1912 – anno di punta, e forse apripista per la vera epopea del Tribuno e del radicalismo rivoluzionario sindacalista – lui vi partecipò, nonostante le sue condizioni di salute fossero alquanto precarie
(rifiuta anche, in nome del sacrosanto dovere di assolvere al suo compito di rivoluzionario, un alloggia in una casa di cura svizzera). Il primo luglio, a Bologna, fu eletto Segretario della CdL attraverso il Congresso Provinciale dei Lavoratori Edili, diventando così il loro trascinatore. Guidò lo sciopero dei facchini, divenendo loro trascinatore, e sperimentando – in modo anche del tutto efficace – la solidarietà proletaria, grazie all’aiuto che i lavoratori edili affiancarono all’azione degli scioperanti, per mezzo delle parole del sindacalista marchigiano.


Questo clima di solidarietà proletaria, facendosi continuo, preoccupò lo stato borghese, che ricorse all’utilizzo delle forze di polizia per la soppressione di quella rivolta cittadina – il tutto, condito dall’inerzia del Partito Socialista a trazione riformista, che prometteva di essere un’oasi moderata per il proletariato in
lotta. Il 13 ottobre, il gruppo sindacalista di Bologna accentuò la propaganda anti-militarista, e Filippo Corridoni si mise a capo di una folta schiera di lavoratori – circa 10.000 – indicendo una manifestazione per via delle difficoltà economiche provocate dall’avventura coloniale (del tutto disastrosa ed inconcludente). Tuttavia, gli organizzatori – Corridoni compreso – furono arrestati e portati nel carcere di S. Giovanni in Monte; ma il giovane marchigiano, non si fermò. Avendo accentuato lo scambio epistolare con Alceste De Ambris proprio in questo periodo, in una lettera dal carcere lanciò un chiaro avviso ai
socialisti: «Il novello tradimento mi ha in siffatto modo esasperato che io a Modena sarò, se non il più valido, il più fervido sostenitore della scissione a tutti i costi»


Infatti, il 22 novembre uscì di prigione, e il giorno seguente si recò a Modena, iniziando il Congresso costitutivo per la nascita dell’Unione Sindacale Italiana (USI) – 23-25 novembre 1912 – e la conseguente scissione dalla Confederazione Generale del Lavoro, capeggiata dal riformismo socialista, nonostante la gran parte delle Camere del Lavoro (almeno quello del centro-nord) seguissero i dettami dell’azione sindacalista rivoluzionaria.
La svolta di Modena rappresentò una nuova tappa nel percorso ascendente del Movimento, e soprattutto del suo massimo esponente – Filippo Corridoni.

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