A cura di Giampiero Braida

Introduzione del curatore
Carlo Pisacane è stato uno dei migliori patrioti che l’Italia potesse mai avere. Nacque a Napoli il 22 agosto del 1818. Formatosi come militare, fu valorosamente traditore della sua classe di nascita (aristocrazia terriera) e partecipò all’impresa della Repubblica Romana insieme a Giuseppe Mazzini, di cui divenne uno dei seguaci più ferventi. Pisacane, dopo la fuga in Inghilterra, abbracciò l’ideale socialista patriottico sotto la scorta di pensatori celebri come Mazzini, Fourier e Proudhon. Nella sua personale concezione di socialismo, Pisacane assegnava un posto importantissimo al fatto nazionale, dando molto peso al tema dell’indipendenza e dell’unificazione italiana.

Se infatti per Marx la classe era il valore assoluto, posto al di fuori della nazione, per Mazzini nazione e socialismo erano due valori alternativi e non sintetizzabili al punto che la lotta di classe era concepita come un pericolo fatale per la coesione della nazione stessa. Pisacane, posto tra due fuochi ideologici, vide invece nel socialismo sia un fine in sé sia uno strumento fondamentale per la nazionalizzazione delle masse.

Fortemente influenzato dai federalisti come Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo e dai socialisti utopisti come Francois Babeuf e Filippo Buonarroti, Pisacane approdò ad un socialismo libertario. Per Pisacane la rivoluzione nazionale scaturiva da quella sociale: pertanto la liberazione della patria doveva avvenire in concomitanza con la liberazione del proletariato, rappresentato all’epoca dalle plebi contadine. Il fine sarebbe stata la creazione di una società mutualistica e comunalista, dove a ciascun lavoratore sarebbero stati garantiti i frutti del proprio lavoro, stabilendo così la proprietà collettiva delle fabbriche e dei terreni agricoli espropriati al clero, alla nobiltà e ai latifondisti. Convintamente mazziniano nel metodo, Carlo Pisacane divenne martire assieme alla sua compagnia di nazionalrivoluzionari con l’impresa di Sapri. Trovò la morte a Sanza, sotto i colpi degli stessi contadini schiavi di latifondisti, infarciti di propaganda borbonica e aizzati contro presunti briganti, che voleva liberare. La sua scomparsa eroica rappresentò un nobile esempio di devozione alla causa nazionale italiana, quello che Mazzini chiamava il “sacrificio senza speranza di premio”, ossia l’azione esemplare volta a stimolare gli animi per una rivoluzionaria ricostruzione della società.

Introduzione al Testamento politico

Il Testamento politico rappresenta le ultime volontà politiche di Pisacane. Scritto poco prima della partenza per l’impresa a Sapri, il testo è una dichiarazione di fede socialista in cui va a delineare gli aspetti salienti del suo pensiero politico, fondato su un’interpretazione materialistica della storia. Sebbene sembra che inizialmente tenda a valorizzare di più le “leggi fatali della storia” in chiave deterministica, alla fine fa prevalere maggiormente il fattore dell’azione, racchiuso nella volontà e nella forza degli uomini stessi. In questo senso Pisacane rientra nel filone moderno del socialismo definibile vitalistico, di cui fecero parte Georges Sorel, il giovane Benito Mussolini (prima della fuoriuscita dal PSI) e il rivoluzionario Vladimir Lenin. Questi uomini della Storia si concentrarono sulla necessità della volontà come principio di innesco dell’azione diretta e clamorosa, la quale ha il compito di risvegliare le masse assopite per partorire finalmente la rivoluzione. Questa concezione ebbe come sappiamo il massimo trionfo negli anni 1914- 1918, siccome la Prima Guerra Mondiale scosse in profondità le fondamenta del mondo borghese.

Altro carattere molto importante nel pensiero di Pisacane è il profondo disprezzo nei confronti del sistema parlamentare e della democrazia liberale. Noi del Socit apprezziamo in modo particolare queste radicali posizioni espresse da Pisacane e le facciamo nostre attraverso lo studio delle figure e delle dottrine del sindacalismo rivoluzionario. Secondo il patriota partenopeo i sistemi precedentemente citati sono fasulli e ipocriti, a detta sua “un narcotico somministrato al popolo per addormentarlo fra le lentate catene ed annebbiante l’intelletto”. In linea con la sua aspra polemica in funzione antipiemontese, Pisacane scriverà che secondo lui non vi è differenza alcuna tra la monarchia sabauda e l’assolutismo austroungarico o borbonico. Come è noto egli criticò radicalmente che il primato d’azione durante l’unificazione italiana spettasse al Regno di Sardegna, in quanto a suo avviso il regime di Carlo Alberto non era altro che una “canzonatura” della libertà.

Alla radice di ciò vi è l’idea che le libertà costituzionali darebbero l’impressione di ammorbidire l’oppressione autoritaria dei sovrani, cancellando il desiderio di una libertà veramente autentica e di un sistema realmente democratico. In maniera provocatoria egli arrivò ad affermare di preferire il regime apertamente più ottuso e reazionario rispetto alla monarchia liberale piemontese, in quanto la rivoluzione sarebbe stata più facile ed esplosiva in un regime pienamente autoritario. Sul piano economico il nostro Pisacane seguì l’ideale associazionistico e cooperativistico di Mazzini ma in chiave socialistica. Basandosi sulla critica alla proprietà di Proudhon e muovendosi intorno al suo ideale libertario-mutualistico, Pisacane propose che l’economia venisse gestita da due associazioni, una per il lavoro agricolo e l’altra per il lavoro industriale. Radunando tutti i lavoratori negli scomparti di mestiere, la gestione del lavoro sarebbe stata collettivamente pianificata. In un certo senso questa visione richiama il socialismo di gilda sorto durante la prima metà del XX secolo in Inghilterra o ancora l’economia pianificata decentralmente dell’anarchico Bakunin. Risalendo infine a uno studio di Nello Rosselli del 1932, possiamo confermare che Pisacane si fa anticipatore della dottrina sindacalista rivoluzionaria, sia nei metodi che nelle finalità. L’evoluzione ideologica dell’ultimo Pisacane, avvenuta peraltro nel suo Testamento, dimostra la preferenza del suddetto verso un socialismo volontaristico, rivoluzionario e anti-deterministico. Un nuovo tipo di socialismo tendente all’azione diretta e alla violenza esercitata nel nome e nell’interesse del popolo da un’élite di “rivoluzionari di mestiere”, ai quali spetta il compito di moralizzare e sollecitare la sollevazione delle classi subalterne. Questa idea è degna di un sindacalista rivoluzionario della portata di Georges Sorel. Pisacane preverrà alla dottrina soreliana prima del tempo: il mito sociale dell’uguaglianza tra classi e della libertà assoluta del popolo dai tiranni, l’aristocratica minoranza di rivoluzionari che si fa portatrice diretta delle volontà più profonde del popolo, la lotta costante contro
l’immobilismo e il riformismo, il rifiuto esplicito dell’elettoralismo e del parlamentarismo, l’allenamento
rivoluzionario delle élites e l’idea della nuova società strutturata economicamente attraverso i sindacati
di mestiere. Il filo che collega il mito sociale dello sciopero generale, che sottrae i ceti operai dalla
pratica riformistica, al mito storico della guerriglia di bande contro gli invasori, che culmina con il
martirio degli eroi (evento cardine che dispiega gli alti valori morali e le virtù antiche dei guerrieri della
patria), non è per niente sottile ma piuttosto ben visibile.

Nell’immaginario di Pisacane la risoluzione dei
problemi politici e sociali dell’Italia va fatta con forze originali italiane che siano espressione di esigenze
autentiche del corpo sociale della nostra patria.
Da qui si inserisce la necessità di accantonare le pratiche riformistiche per suscitare nell’inerzia
nazionale nuovi sussulti ed affermazioni spontaneamente violente per smuovere il potenziale popolare.
La rivoluzione politica deve risolversi, come per la lotta di classe, in uno “sforzo di liberazione interiore
che muova dal basso, dal sottosuolo sociale, e trovi espressione nelle élites rappresentative e si imponga
come volontà di lottare”. Per Pisacane bisogna creare l’atmosfera favorevole ad entrambe le rivoluzioni,
sia quella sociale sia quella nazionale, coinvolgendo sempre di più la popolazione a partire dagli strati
più bassi, infrangendo le barriere dei divieti, conquistando le proprie libertà con la violenza.

Il Testamento

Genova, 24 giugno 1857


Nel momento d’avventurarmi in una intrapresa risicata, voglio manifestare al paese la mia opinione per
combattere la critica del volgo, sempre disposto a far plauso ai vincitori e a maledire ai vinti.
I miei principî politici sono sufficientemente conosciuti; io credo al socialismo, ma ad un socialismo diverso dai sistemi francesi, tutti piú o meno fondati sull’idea monarchica e dispotica, che prevale nella nazione: esso è l’avvenire inevitabile e prossimo dell’Italia e fors’anche dell’Europa intiera. Il socialismo, di cui parlo, può definirsi in queste due parole: libertà e associazione.
Questa opinione fu da me sviluppata in due volumi, che ho composto, frutto di quasi sei anni di studi, ai
quali per mancanza di tempo non ho potuto dedicare le ultime cure che richiedono lo stile e la dizione. Se qualcheduno fra i miei amici volesse surrogarmi e pubblicare questi due volumi, io gliene sarei
riconoscentissimo.
Io sono convinto che le strade di ferro, i telegrafi elettrici, le macchine, i miglioramenti dell’industria, tutto
ciò finalmente che sviluppa e facilita il commercio, è da una legge fatale destinato ad impoverire le masse
fino a che il riparto dei benefizi sia fatto dalla concorrenza. Tutti quei mezzi aumentano i prodotti, ma li
accumulano in un piccolo numero di mani, dal che deriva che il tanto vantato progresso termina per non
esser altro che decadenza. Se tali pretesi miglioramenti si considerano come un progresso, questo sarà nel senso di aumentar la miseria del povero per spingerlo infallibilmente a una terribile rivoluzione, la quale cambiando l’ordine sociale metterà a profitto di tutti ciò che ora riesce a profitto di alcuni. Io sono convinto che l’Italia sarà grande per la libertà o sarà schiava: io sono convinto che i rimedî temperati, come il regime costituzionale del Piemonte e le migliorie progressive accordate alla Lombardia, ben lungi dal far avanzare il risorgimento d’Italia, non possono che ritardarlo. Per quanto mi riguarda, io non farei il piú piccolo sacrifizio per cambiare un ministero o per ottenere una costituzione, neppure per scacciare gli Austriaci dalla Lombardia e riunire questa provincia al regno di Sardegna. Per mio avviso la dominazione della casa di Savoia e la dominazione della casa d’Austria sono precisamente la stessa cosa. Io credo pure che il regime costituzionale del Piemonte è piú nocivo all’Italia di quello che lo sia la tirannia di Ferdinando II. Io credo fermamente che se il Piemonte fosse stato governato nello stesso modo che lo furono gli altri Stati italiani, la rivoluzione d’Italia sarebbe a quest’ora compiuta. Questa opinione pronunciatissima deriva in me dalla profonda mia convinzione di essere la propagazione dell’idea una chimera e l’istruzione popolare un’assurdità.
Le idee nascono dai fatti e non questi da quelle, ed il popolo non sarà libero perché sarà istrutto, ma sarà
ben tosto istrutto quando sarà libero. La sola cosa, che può fare un cittadino per essere utile al suo paese, è di attendere pazientemente il giorno, in cui potrà cooperare ad una rivoluzione materiale: le cospirazioni, i complotti, i tentativi di insurrezione sono, secondo me, la serie dei fatti per mezzo dei quali l’Italia s’incammina verso il suo scopo, l’unità, L’intervento della baionetta di Milano ha prodotto una propaganda molto piú efficace che mille volumi scritti dai dottrinari, che sono la vera peste del nostro paese e del mondo intiero.
Vi sono delle persone che dicono: la rivoluzione dev’esser fatta dal paese. Ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e se attendessero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza prepararla colla cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe mai. Se al contrario tutti dicessero: la rivoluzione deve farsi dal paese e siccome io sono parte infinitesimale del paese, così ho io pure la mia parte infinitesimale di dovere da adempiere, e l’adempisse, la rivoluzione sarebbe fatta immediatamente e riuscirebbe invincibile perché immensa. Si può non esser d’accordo sulla forma di una cospirazione, sul luogo e sul tempo in cui una cospirazione debba compiersi: ma non essere d’accordo sul principio è un’assurdità, un’ipocrisia, un modo di celare il piú basso egoismo.
Io stimo colui che approva la cospirazione ed egli stesso non cospira: ma non sento che disprezzo per coloro, che non solo non voglion far niente ma che si compiacciono nel biasimare e nel maledire gli uomini d’azione. Secondo i miei principî avrei creduto di mancare ad un sacro dovere se vedendo la possibilità di tentare un colpo di mano su d’un punto bene scelto ed in circostanze favorevoli, non avessi spiegato tutta la mia energia per eseguirlo e farlo riuscire a buon fine.
Io non ho la pretesa, come molti oziosi me ne accusano per giustificare sé stessi, di essere il salvatore della patria. No: ma io sono convinto che nel mezzogiorno dell’Italia la rivoluzione morale esiste: che un impulso energico può spingere le popolazioni a tentare un movimento decisivo ed è perciò che i miei sforzi si sono diretti al compimento di una cospirazione che deve dare quello impulso. Se giungo sul luogo dello sbarco, che sarà Sapri, nel Principato citeriore, io crederò aver ottenuto un grande successo personale, dovessi pure lasciar la vita sul palco. Semplice individuo, quantunque sia sostenuto da un numero assai grande di uomini generosi, io non posso che ciò fare, e lo faccio. Il resto dipende dal paese, e non da me. Io non ho che la mia vita da sacrificare per quello scopo ed in questo sacrifizio non esito punto.
Io sono persuaso, se l’impresa riesce, otterrò gli applausi generali: se soccombo, il pubblico mi biasimerà.
Sarò detto pazzo, ambizioso, turbolento, e quelli, che nulla mai facendo passano la loro vita nel criticare gli altri, esamineranno minuziosamente il tentativo, metteranno a scoperto i miei errori, mi accuseranno di non esser riuscito per mancanza di spirito, di cuore e di energia… Tutti questi detrattori, lo sappiano bene, io li considero non solo incapaci di fare ciò che si è da me tentato, ma anche di concepirne l’idea. A quelli che diranno che l’impresa era d’impossibile riuscita io rispondo che se prima di combinare di tali imprese si dovesse ottenerne l’approvazione nel mondo bisognerebbe rinunziarvi. Il mondo non approva in
prevenzione che i disegni volgari. Fu detto un pazzo colui che fece in America l’esperimento del primo
battello a vapore, e si è piú tardi dimostrata l’impossibilità di traversare l’Atlantico con tali battelli. Era un
pazzo il nostro Colombo prima di aver scoperto l’America, e l’uomo volgare avrebbe trattato di pazzi e
d’imbecilli Annibale e Napoleone se avessero avuto a soccombere quello alla Trebbia, questo a Marengo. Io non pretendo paragonare la mia impresa con quelle di questi grandi uomini. Essa per altro loro rassomiglia in una parte: perché sarà l’oggetto dell’universale disapprovazione se fallisco, e dell’ammirazione di tutti se riesco.


Se Napoleone prima di abbandonare l’isola d’Elba per sbarcare a Fréjus con cinquanta granatieri avesse
domandato dei consigli, il suo progetto sarebbe stato biasimato all’unanimità. Napoleone aveva ciò ch’io
non ho, il prestigio del suo nome, ma io unisco alla mia bandiera tutte le affezioni e tutte le speranze della rivoluzione italiana. Combatteranno con me tutti i dolori e tutte le miserie d’Italia.
Io piú non aggiungo che una parola: se non riesco disprezzo profondamente l’uomo ignobile e volgare che mi condannerà: se riesco apprezzerò assai poco i suoi applausi. Ogni mia ricompensa io la troverò nel fondo della mia coscienza e nell’animo di questi cari e generosi amici, che mi hanno recato il loro concorso ed hanno diviso i battiti del mio cuore e le mie speranze: che se il nostro sacrifizio non apporta alcun bene all’Italia, sarà almeno una gloria per essa l’aver prodotto dei figli che vollero immolarsi al suo avvenire.


Sottoscritto
Carlo Pisacane

L’uguaglianza sociale oltre il velo democratico

Durante gli anni 1851-1856, Pisacane compose dei testi che uscirono postumi col titolo “Saggi storici,
politici, militari “. Noi del Socit abbiamo pertanto deciso di inserire come approfondimento ulteriore delle
idee del Nostro un passo tratto dal saggio “La Rivoluzione”.


In questo breve testo l’autore sviluppa una personale critica ai regimi moderati insistendo in particolar
modo sul tema dell’uguaglianza sociale.
“Mentre la fame interdice lo sviluppo delle facoltà che la Natura ha concesso al proletario, e lo sospinge suo malgrado sulla via faticosa ed aspra percorsa dal padre; uno stolido, un idiota, dal quale mai potrà cavarsi frutto, perché ricco, avrà tempo e mezzi esuberanti per la sua educazione, che verranno inutilmente sprecati. L’uguaglianza politica è derisione, allorché i rapporti sociali dividono i cittadini in due classi distintissime, l’una condannata a perpetuo lavoro per miseramente vivere, l’altra destinata a godersi il frutto del sudore di quelli. L’uguaglianza politica non è che un ritrovato per sgravarsi dell’obbligo di nutrire i schiavi, per privare il fanciullo, il vecchio, il malato d’assistenza; è un ritrovato per concedere al ricco, oltre i suoi diritti politici, la facoltà d’avvalersi di quelli dei suoi dipendenti. Sono state sciolte le catene de’ schiavi recidendogli i garretti. Una tale ingiustizia, che sacrifica a pochi moltissimi, è, eziandio, danno manifesto all’intera società, perché riesce impossibile a’null’abbienti ingegnarsi (i nullatenenti, i poveri, neppure impegnandosi possono cambiare la propria condizione di miseria), ed ai troppo facoltosi manca ogni stimolo per farlo; e crescendo così la disuguaglianza si procede verso, come altrove dicemmo, al deperimento, alla dissoluzione sociale. In una società ove la sola fame costringe il maggior numero al lavoro, la libertà non esiste, la virtù è impossibile, il misfatto è inevitabile: la fame e l’ignoranza, sua conseguenza immediata, rendono la plebe sostegno di quelle medesime istituzioni, di que’ pregiudizi da cui emerge la loro miseria; rivolgono la spada del cittadino contro i cittadini medesimi a difesa d’una tirannide che opprime tutti. La fame imbriglia il pensiero, aguzza il pugnale dell’assassino, prostituisce la donna. La società intera viene abbandonata al governo di coloro che posseggono, ed il suo utile, la sua volontà, sarà sempre quella di cotesti pochi, i quali ammolliti dalle ricchezze, che temono di perdere, sacrificheranno sempre l’onore, la dignità, l’utile universale ai loro ozii beati e l’ignoranza e la miseria interdicendo al maggior numero la libera espressione della loro volontà distrugge affatto la nazionalità espressa dalla volontà collettiva senza eccezione e senza prevalenza di classi. Conchiudiamo: la libertà senza l’uguaglianza non esiste, e questa e quella sono condizioni indispensabili alla nazionalità, che a sua volta le contiene, come il sole la luce e il calore”.

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