Di Lorenzo Maffetti

Stabilire una linea popolare da seguire mediante un cammino verso cui convergano le principali forze di opposizione alla guerra (associazioni, movimenti, gruppi che figurano online, giornali antisistema ed indipendenti, fasce popolari, “partiti”, ecc) è complicato per due motivi soprattutto. Nonostante la maggioranza del popolo italiano sia contrario alla guerra e all’invio di armi in Ucraina, lo spettro degli oppositori al bellicismo è variegato e quantunque le analisi geopolitiche siano pressoché le medesime (infatti tutti sono concordi nella difesa del Donbass, al dì là di alcune sfaccettature, nel definire questa guerra una “guerra per procura” con tutte le implicazioni del caso e nel denunciare la presenza nazista in Ucraina, ecc.) non si è configurato ancora un progetto politico unitario sotto un’unica egida che raggruppi tutte le micro-aree antisistema e si faccia unico portavoce del verbo antibellicista, congiuntamente ad una denuncia a trecentosessanta gradi della politica italiana, e per questo motivo – pur essendoci unità analitica, manca quella pratica, sebbene diversi la vorrebbero – non è possibile agire politicamente e culturalmente coinvolgendo le masse.

C’è, sì, la raccolta firme per il Referendum contro la guerra, che può di certo essere una luce in fondo al tunnel per la partecipazione delle masse popolari al sistema democratico di voto (e se non altro aprire contraddizioni in caso di rigetto), ma, di contro, gli attuatori e i difensori di questa raccolta firme non hanno ancora prodotto alcun progetto politico a medio e lungo termine, con il quale fronteggiare il “dopo”. Se difatti questo referendum, il quale potrebbe portare ad una nuova e acuta mobilitazione popolare anche antigovernativa, non viene inserito in un progetto politico e culturale che guardi anche al “dopo” indipendentemente dall’esito della stessa campagna referendaria, si correrebbe il rischio di perdere una possibile rampa di lancio per una politica attiva ed unitaria soprattutto nel fronte socialista, perché tale possibilità si trasformerebbe, inevitabilmente, in un calcolo attento di alcuni esponenti dell’area cosiddetta “antisistema” che non hanno saputo giocare al meglio le carte che avevano a disposizione, perdendo una partita che, se così sarà, costerebbe altra stagnazione alla politica extraparlamentare.

In secondo luogo perché il fronte socialista, che per primo dovrebbe essere portavoce della pace, è diviso nei confronti della crisi ucraina e attualmente è abbastanza lungi dalle stesse masse popolari che di recente si sono mobilitate contro la guerra. Difatti questa spaccatura (tra filorussi, filoucraini, multipolaristi, antimultipolaristi, ecc) non solo è controproducente nei confronti della formazione di una coscienza collettiva, ma è anche subdola, oltreché ridicola, perché da un lato crea divisioni interne ed esterne al movimento socialista, favorendo in questo modo anche la divisione tra tutti coloro che vengono persuasi dal verbo di questo o quel retore, mentre dall’altro lato mina la credibilità dell’intero collettivo socialista, il quale – già non essendo più un punto di riferimento per le fasce meno abbienti – rischierebbe di cadere ancor più nell’oblio, anziché portare alla ribalta sé stesso e i subalterni. D’altronde questa spaccatura è manifesta da molti anni e con l’ascesa della raccolta firme nella campagna referendaria si è resa ancor più evidente: il personalismo di Tizio, l’opportunismo di Caio e il dogmatismo di Sempronio sono tutti degli ostacoli all’unità dei socialisti italiani. E a quanto pare non sembra essere soltanto un problema legato alla negligenza – voluta o inconsciamente provocata – di determinati individui alla testa delle fazioni interne all’area socialista, ma anche un problema strutturale, legato soprattutto al continuo crearsi di nuclei su nuclei, che hanno generato questo frazionamento (questione di cui va certamente sottolineata l’influenza del KKE su varie giovanili comuniste europee). Continuiamo a scindere il fronte socialista: prima o poi arriveremo a singoli atomi sparsi, ognuno dei quali rivendicherà un proprio e soggettivo significato del concetto di “socialismo”. E la borghesia applaudirà i suoi complici, volenti o nolenti, che rompono fronti per un piatto di lenticchie o giocano ai settari da baraccone foraggiati da Atene.
Dunque, alla luce di tutto ciò, occorrerebbe collaborazione tra tutti gli oppositori al conflitto – in special modo tra partiti, associazioni, movimenti, ecc. – per andare “incontro alle masse “, sui bisogni delle quali dovrebbero ergersi micro- e macro-obiettivi politici e sociali da conquistare. Poi, in seconda istanza, anche fare una volta per tutte i conti con le tendenze reazionarie ed utopiche sia nel bacino socialista sia tra i dissidenti. Il perché è chiaro a tutti: le inclinazioni utopiche e/o reazionari offuscano la vista ai lettori e ai partecipanti della vita sociale e, ponendosi come dogmi, precludono l’analisi della società materiale ai soggetti oppressi e rimpinguano di speranze le teste delle masse popolari, che a queste speranze non dovrebbero aggrapparsi come certezze di un avvenire prossimo (quanto accadeva nel medioevo, con i seguaci della Chiesa) destinato quasi per comandamento divino a realizzarsi, ma dovrebbero (e dovremo) rincorrerle e favorirne l’attuazione, come qualcosa che sembra impossibile ma non lo è affatto. È difficile, sì. E su questo non ci piove.

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