Di Lorenzo Maffetti

Dall’inizio della guerra in Ucraina, i centri culturali dell’occidente (USA compresi) e – soprattutto – dell’Italia, hanno garantito (come sempre) ai loro guru di levare in alto le grida d’indignazione per ciò che stava accadendo (e tuttora prosegue), favorendo l’entrata in scena di un’altra guerra, al dì fuori di
quella sul campo: un conflitto culturale.


In Italia abbiamo avuto l’ennesima dimostrazione di come i nostri centri siano delle omologazioni (più o meno gravi) di quelli che infestano l’occidente democratico. Probabilmente, anzi, solo nell’Italia dai mille colori e volti stiamo assistendo a ragionamenti roboanti da capogiro – vertiginosi per qualsiasi mente provvista di lògos – provenienti da anti-putiniani di tutte le salse, animati da un manicheismo cronico, insito nella loro particolarissima visione dei fatti. Che lo strepito contro il “demonio russo” provenga da destra o da sinistra (più o meno estreme), poco cambia. Trattasi lo stesso del medesimo fenomeno sopracitato: manichea guerra culturale. Quest’ultima, però, arriva ad investire anche un’altra categoria di conflitto, che in tal caso diventa tutt’uno con essa: lo scontro tra “civiltà”.


Quella dell’occidente – libero, democratico, pacifi(n)s(t)ta(o), sessualmente poliedrico – e quella russa – dittatoriale, omofoba, anti-democratica, per alcuni comunista per altri a tal punto illiberale “che sarebbe meglio la NATO” (Taurunum docet).
La molteplicità di visioni – le quali, bene o male, fanno parte del medesimo schema di pensiero (imposto) -, oltre a fungere da ennesimo specchietto per le allodole con il quale discostare le masse cittadine dai veri problemi dell’Italia e del mondo, racchiude una unità inconsapevole di fondo, che fa capo al
problema della credenza delle masse nostrane di credere che siano nel giusto (o, per meglio dire, che siano anti-sistemiche) – urlando ai quattro venti slogan o enunciando, attraverso schiamazzi repressi, visioni d’insieme parimenti illogiche – quando, in realtà, la critica pecca d’una molteplicità d’errori
destinati a non essere compresi, qualora si continui su questa strada.

La riflessione filosofica, però, non è propria di questo articolo. Le categorie di intellettuali che analizzano la situazione bellica – spostandola sui piani sopracitati – è variegata.


Democratici di sinistra e di destra accusano il leader russo di “zarismo staliniano” (interessante, non trovate?) anelante la distruzione delle “libertà” occidentali (anche allorquando l’unica libertà dell’occidente è quella di non-pensare e non-essere. Una libertà che tutti fanno propria) e del sancta sanctorum della democrazia: l’UE e la NATO; sinistrati, barcamentanti tra pacifismo e ultra-pacifismo, che vorrebbero vedere l’orso ucciso dal pagliaccio, invocando l’avanti tutta del comico rinchiuso in
un bunker per piegare le truppe russe, giustificando – in tal senso le formazioni paramilitari neo-naziste e il proseguimento del conflitto (alla faccia del pacifismo come valore!); destristi più o meno uniti che vedono in Putin – per via di qualche uscita in pubblico tesa a ricordare la Grande Guerra Patriottica – un
pericolosissimo comunista, erede di Stalin, il Belzebù per eccellenza (“poveri kulaki!”), il cui obiettivo sarebbe quello di riedificare l’URSS, e che elogiano gli “azoviti” per essere gli
“ultimi combattenti” dell’Europa (sì, dell’UE); ed anti-imperialisti saltimbanchi, colle cervella fuse (al pari del cioccolato nella fabbrica di Willy Wonka), diventati – per magia – fedelissimi guerrieri dell’espansionismo NATO.


Tranquilli, maggiordomi del capitale, gli operai sono il vero pericolo.

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